Qualcuno dice che la nostra generazione ha dei comportamenti sociali che ricordano un po’ il Medioevo. In che senso? Nel senso che nei momenti di crisi ci uniamo, mettiamo insieme le forze e cerchiamo di darci una mano, esattamente come succedeva nel Medioevo.
Ogni tanto sento venir fuori l’argomento, timidamente, come fosse una specie di sogno utopico e ingenuo di cui ci si vergogna un po’: ma se andassimo a vivere tutti insieme? Con alcuni amici infatti, abbiamo creato una vera e propria rete di mutuo soccorso, inaugurata i primi anni di Accademia, quando eravamo tutti fuorisede, soli, a Roma: bastava che scattasse una febbre o l’ennesimo trasloco di qualcuno per attivare un discreto numero di persone alla ricerca di medicinali, macchine e quant’altro. Per non parlare del baby-sitteraggio alle figlie delle amiche.
Questo ha creato non solo delle relazioni profonde e durature, ma anche un’abitudine a farsi carico dei bisogni di una piccola comunità. È solo un esempio, indicativo però di un certo spirito, e per quanto sia convinta che, per quanto mi riguarda, la cosa non si concretizzerà mai, in assoluto vedo sempre più persone parlare di ottime esperienze di condivisione, che aiutano non solo a venire a capo di diversi problemi quotidiani, ma anche a sentirsi meno soli: dalla casa nel cohousing, agli spazi di lavoro coworking, fino ad arrivare a tutte le forme di trasporto tipo bike e car sharing.
A tutti gli allergici delle cose che suonano un po’ frikkettone, va detto che in questi ultimi anni, complici tutte le difficoltà economico-sociali che abbiamo attraversato, si è fatta strada un’idea di condivisione – al posto di quella più tradizionale del possesso – di molti beni che non eravamo abituati a pensare come condivisibili: macchine, biciclette, uffici e case. Così sono nati gli spazi di coworking, luoghi dove lavorare in autonomia, creando relazioni e reti con altre persone, con cui si condivide uno spazio (come l’Impact Hub o il Coworking Project); il bike sharing e il car sharing, servizi che mettono a disposizione biciclette e macchine per potersi muovere in città (mentre il car pooling BlaBlaCar copre le tratte più lunghe). Poi, partendo dallo stesso principio di condivisione di spazi e mezzi per economizzare forze, tempo e creare rapporti con la propria comunità, è arrivato anche il cohousing.
Come si legge in siti che raccontano di esperienze attive in Italia, i cohousing sono complessi abitativi autonomi e privati, per famiglie o singoli, con ampi spazi comuni destinati alla condivisione tra i cohouser, che non prevede un’aggregazione ideologica di nessun tipo. Gli spazi e lo stile di vita sono condivisi fin dalla loro progettazione e realizzazione, in modo da poter contare sulla cooperazione di tutti. Una specie di organizzazione “intelligente” dei rapporti di vicinato, laddove il vicinato si sceglie e non è composto da persone riunite per puro caso. Si tratta di una pratica presente in contesti urbani; quando si parla della campagna, si chiama cofarming. Non sono neanche da confondere con le “comunità” o gli “ecovillaggi”, che pongono gli accenti su diversi aspetti, presenti anche nel cohousing, ma non preponderanti (come l’attenzione alla vita in comune e all’ecosostenibilità). La nascita di questa pratica viene spesso ricondotta alle esperienze in Danimarca degli anni ’60 e ’70, che hanno preso poi piede in diversi paesi, e oggi contano esperienze nel Nord Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone.
Ho sentito spesso persone commentare che questo è soltanto un trend destinato a passare – o comunque a interessare soltanto un ristretto gruppo di persone. Forse è vero, ma la realtà sembra dire tutt’altro; non solo perché il cohousing è presente già da tempo, ma perché – a pensarci bene – il modo stesso in cui è organizzata la nostra società non è sempre stato così come lo conosciamo, anzi: le nostre abitudini di vita sono cambiate spesso e radicalmente, per migliaia di anni – e la famiglia nucleare (cioè basata su un nucleo ristretto di soggetti) che rappresenta il nostro modello è relativamente recente. Come spiega un articolo del The Atlantic, il trend della nostra generazione di vivere in soluzioni di cohousing o in maniere alternative (magari affittando spazi nella propria casa ad amici o sconosciuti con le soluzioni di hosting su internet) ci sta portando a una situazione simile a quella dell’Europa medievale.
Come racconta un libro dello storico John Gillis A World of Their Own Making: Myth, Ritual, and the Quest for Family Values nell’Europa Occidentale del dodicesimo secolo, le persone vivevano con un mix di amici e “famiglia allargata”, cambiando molto spesso abitazione – visto più come un riparo momentaneo che quel luogo speciale che è la casa d’origine della propria famiglia. In questi gruppi convergevano molte persone; oltre ai genitori e i figli, c’erano vedove, orfani, amici, anziani senza famiglia. Questa concezione “comunitaria” si è protratta fino al diciannovesimo secolo, quando l’industrializzazione ha definitivamente cambiato l’assetto della società. Esattamente come allora la nostra generazione sta abbracciando quel tipo di vita in comune per creare un modo di vivere più sostenibile – e migliore – che rompe con la concezione di famiglia “nucleare” del nostro tempo.
Un po’ aiutati dalle possibilità di usufruire di servizi di sharing, che ci spingono ad abbandonare il mito del possesso e dell’esclusività, un po’ dall’istinto di appoggiarci gli uni agli altri nel momento del bisogno, un po’ anche sostenuti da una sensibilità verso i temi del risparmio di risorse ed energie, verrebbe da dire che stiamo cercando di tirar fuori qualcosa di buono da questo momento di forte incertezza; certo, se si guarda bene non ci stiamo inventando niente di nuovo, ma stiamo lentamente portando avanti un cambiamento. Quanto, e se è destinato a durare, non si sa, ma è certo che è già in moto.
Source: freedamedia.it
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