Spesso le persone che vengono da me per essere aiutate a ri-trovarsi mi chiedono “Perché”.
Capire il perché dei propri disagi non porta da nessuna parte e lo psicoterapeuta non può rispondere a nessun perché, perché non gli è dato di saperlo.
Il mondo degli affetti e delle emozioni appartiene ad altri mondi e non ci sono spiegazioni logiche.
In tutte le storie che ascolto c’è un elemento comune e cioè l’eccessivo utilizzo della ragione che domina le emozioni, e più impediamo a noi stessi di vivere la gioia e il dolore, l’euforia e la tristezza, più il corpo si ribella facendoci ammalare.
Se si fa una psicoterapia non bisogna pensare di acquisire certezze o di avere risposte. Capire perché soffriamo non serve a nulla, e la psicoterapia non è il luogo dei buoni consigli. L’anima non conosce la parola perché.
Ci sono percorsi psicologico in cui le immagini scorrono libere, come nel sogno, dove la coscienza non interviene, territori dei simboli senza tempo.
Quanto più un racconto esce dal quotidiano, tanto più si immerge nell’infinito. L’ansia, la paura, il dolore non corrispondono più alla realtà ma si trasformano in immagini senza tempo della fiaba, del mito, del sogno. Lì in quel territorio, il perché si arrende, cessa di avere un senso, e i fatti sfumano di importanza. Le nostre immagini diventano protagoniste, come in un teatro in cui si alza il sipario del nostro essere, al di là di ciò che appariamo, che sembriamo agli altri, al mondo.
Più che farsi capire, quindi, i disturbi sembrano raccontare un linguaggio inespresso dell’anima. Un ritratto di chi siamo al di là della coscienza.
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