Durante una lezione del primo semestre alla mia scuola di recitazione, ci è stato richiesto di “portare” una parola nuova al giorno, fino alla fine dell’anno, spiegandone il significato in classe ai compagni. Momento di confusione e di leggero imbarazzo: di colpo ci sembrava di essere tornati alle elementari, a quegli esercizi volti ad “ampliare il nostro vocabolario” – e infatti lo scopo era proprio quello. “Se siete abituati a usare sempre e solo quel centinaio di parole per descrivere quello che vi succede, come pensate di esprimere tutte le infinite sfumature dell’emotività del vostro personaggio, così minuziosamente raccontate nella letteratura che vi capita sottomano?” Il ragionamento non faceva una piega e, naturalmente, quello delle emozioni è un campo di indagine che interessa non solo l’ambito teatrale: lo sforzo per cercare di dare un nome, sempre più preciso, all’universo delle nostre emozioni sembra coinvolgere anche una certa parte delle neuroscienze. Nel 2013, ad esempio, lo studio di un team di psicologi ha individuato delle specifiche attività celebrali per nove distinte emozioni umane: rabbia, disgusto, invidia, paura, felicità, lussuria, orgoglio, tristezza, vergogna.
Questo tipo di indagine ha affascinato anche Tiffany Watt Smith, una ricercatrice del Centre for the History of the Emotions alla Queen Mary University di Londra, che ha spiegato a Science Of Us come la nostra idea di cosa sia un’emozione stia evolvendo in qualcosa di fisico, ovvero possiamo vederne la collocazione in una parte del cervello. Ovviamente, va detto che considerare l’aspetto fisico delle emozioni non basta a descriverne la natura: “chiamare l’amigdala il centro della paura non ci aiuta troppo nel capire cosa voglia dire essere intimoriti”.
Ed è proprio alla nostra soggettiva esperienza delle emozioni che si riferisce Smith nel libro The Book of Human Emotions, una specie di collezione di 154 parole che fungono da esplorazione di quella che si chiama “granularità emozionale”. Di cosa si tratta? La psicologa Lisa Feldman Barrett l’ha definita come la capacità di mettere le proprie emozioni in parole con un alto grado di complessità – come descriverne le sfumature in maniera puntuale o riuscirne a dare un grado di intensità – che, a quanto pare, riesce a dare a chi la possiede una maggior precisione nel modo di conoscere se stessi e il mondo.
Dare un nome a un’emozione può aiutare a esserne meno sopraffatti e renderla più gestibile. Qui sotto qualche esempio: una breve lista di alcune parole con cui misurarsi per vedere se si riconosce “quell’emozione lì”, che in certe occasioni non siamo riusciti spiegare propriamente. O magari accorgersi di come, dopo averne letto la definizione, si cominci a provarla molto più spesso…
1. Amae: presa in prestito dal dizionario giapponese, Smith la definisce come la possibilità di affidarsi alla benevolenza di qualcuno, quel tipo di sensazione di fiducia profonda e incondizionata o, come direbbe lo psicanalista giapponese Takeo Doi “un’emozione che considera l’amore dell’altra persona per scontato” – rimandando a un preciso modo di sentirsi amati.
2. L’appel du vide: vi è mai capitato, in un luogo particolarmente alto, di avere l’improvviso pensiero di gettarvi nel vuoto, magari pur soffrendo di vertigini? O aspettare il treno e provare l’impulso di buttarsi giù dalla banchina? Questa sensazione è stata definita da alcuni psicologi americani, in uno studio del 2012, high place fenomenon (dove scrivono che, comunque, l’emozione non ha a che vedere con la volontà di suicidio), ma per questo vocabolario delle emozioni è stata scelta la versione francese del termine, letteralmente “il richiamo del vuoto”. Come diceva il filosofo Jean-Paul Sartre, si tratta di una sensazione particolarmente inquietante per il modo in cui “crea una snervante e precaria sensazione di non potersi fidare dei propri istinti”.
3. Awumbuk: ha a che fare col vuoto, ma di un tipo ben diverso da quello di cui abbiamo parlato prima. Smith infatti propone una parola presa in prestito dalla tribù Baining della Papua Nuova Guinea, che usa il termine awumbuk per definire quella precisa sensazione di “vuoto dopo che gli ospiti partono”. Come liberarsene? Loro hanno un rituale preciso: mettono l’acqua in una ciotola, con la funzione di assorbire, durante la notte, l’aria infestata da questa sensazione. L’indomani la famiglia si alza per buttare l’acqua negli alberi, per immetterla nel ciclo vitale. Provare per credere.
4. Kaukokaipuu: che dire di quel senso di nostalgia e appartenenza nei confronti di un luogo mai conosciuto? Un luogo a cui sentiamo di appartenere pur non essendoci mai stati, di cui forse abbiamo sentito parlare per via di qualche nostra discendenza; ebbene, i finlandesi hanno una parola specifica per questa emozione, ed è proprio kaukokaipuu, da intendersi anche come variante specifica di un desiderio estremo di viaggiare in paesi lontani.
5. Pronoia: presente quando ci si sente paranoici, come se il mondo stesse complottando contro di noi? Ebbene c’è anche una sensazione precisa per l’inverso, ovvero il timore che qualcuno stesse tramando per la nostra felicità – e pronoia è il suo nome. È la strana sensazione che qualcuno ci stia aiutando: misterioso, ma anche bello, no?
Source: freedamedia.it
L'edizione della notte del Tg diretto da Enrico Mentana
L'informazione della testata giornalistica di LA7 diretta da Enrico Mentana
ROMA (ITALPRESS) – Renato Di Napoli è stato confermato per il terzo mandato alla guida della Federazione Italiana Tennistavolo. Nell’assemblea…
PARMA (ITALPRESS) – Vetta tutta nerazzurra in Serie A. Dopo la cinquina dell’Inter arriva il tris dell’Atalanta, che sconfigge 3-1…
MILANO (ITALPRESS) – Vince la noia a San Siro. Milan e Juventus danno vita a uno spettacolo tutt’altro che indimenticabile,…