Scrivo di femminismo e questioni di genere da un po’ di anni ormai, eppure ogni tanto riemerge in me un interrogativo: ho diritto io, da uomo, a occuparmi di femminismo?
Sono un ragazzo omosessuale e ho sperimentato a lungo sulla mia pelle la tossicità del patriarcato. L’ho sperimentata in famiglia, sin da quando ero molto piccolo. L’ho sperimentata fuori, nel mondo, venendo a contatto con le tante donne offese e umiliate, attaccate e sottomesse. L’ho sperimentata studiando e frequentando gli ambienti accademici ed editoriali, rendendomi conto che le mie autrici preferite – poetesse, romanziere, saggiste, filosofe – nel mondo nella cultura mainstream non ricevono quasi mai la stessa attenzione che ricevono i colleghi maschi.
Scrivo di questi temi con interesse e passione e mi fa un po’ specie quando capita di leggere commenti del tipo: “Ma è un uomo e parla di femminismo…” o “Perché quest’articolo è scritto da un maschio?” oppure ancora quando mi vedo accusato di mansplaining. È vero, sono un uomo, ma ciononostante sono profondamente, direi visceralmente interessato alla liberazione del femminile, e di conseguenza trovo interessante esplorare le possibilità e i limiti del discorso femminista prodotto da soggetti che non abitano un corpo di donna, come nel mio caso. Non ho responsabilità per il fatto di avere un pene, ma credo di averne per le parole che scelgo di diffondere nel mondo, per i pensieri che formulo, per le azioni che compio. Il femminismo penso riguardi più il piano della scelta che quello – fisso, predeterminato – della natura biologica.
Generalmente con “femminismo” si intende infatti più un discorso culturale e/o politico che non un semplice discorso prodotto da individui di sesso femminile (anche perché esistono donne maschiliste o in cui comunque agiscono stereotipi sessisti). Insomma: il femminismo non sembra essere semplicemente “il punto di vista delle donne”. È o dovrebbe essere il punto di vista delle donne (ma anche degli uomini) che hanno a cuore la condizione di tutte le donne, e secondo me è utile ricordarsi di questa distinzione per allargare i confini del femminismo stesso.
Intendo dire che non credo che il femminismo possa ridursi a una questione di appartenenza biologica o dotazione genitale: i discorsi e le pratiche di emancipazione e liberazione del femminile interessano soprattutto il piano comportamentale, estetico e simbolico. Che la biologia sia solo relativa è dimostrato dal fatto che ci sono molti uomini che vengono penalizzati e emarginati per il fatto di manifestare elementi tradizionalmente femminili, mentre ci sono donne che ricevono benefici dal fatto di farsi ambasciatrici di valori patriarcali. Di per sé il corpo non garantisce molto: non salva dall’oppressione patriarcale, né rende automaticamente femministe/i.
Quando si parla di diritti delle donne il punto di vista delle donne stesse è ovviamente fondamentale e imprescindibile, ma femminista non è solo una donna che lotta per i suoi diritti: io credo che sia femminista qualunque persona interessata, e praticamente impegnata, per emancipare il femminile dalla morsa del sessismo, nonché qualunque persona sensibile alla violenza di genere e che mira alla fine dell’ingiustizia rappresentata dal maschilismo, ovvero da quella cultura che vede l’uomo e i suoi valori al culmine della gerarchia sociale.
Oggi, quando si parla dell’importanza dell’approccio intersezionale, si allude proprio al fatto che la lotta al patriarcato può vedere l’alleanza di molte categorie diverse, ovvero di tutte quelle categorie e di quei gruppi tradizionalmente oppressi dalla cultura maschilista. Il patriarcato infatti colpisce le donne, ma anche gli uomini gay, i maschi effemminati o anche semplicemente lontani per qualche aspetto dal paradigma del maschio alfa dominante. La cultura sessista e patriarcale colpisce in generale tutte quelle persone in qualche modo non allineate in fatto di questioni di genere e di orientamento affettivo e sessuale. Più semplicemente possiamo dire che il patriarcato colpisce tutti quelli che, al posto che adeguarsi ai modi di fare che la società ci tramanda, desiderano ascoltare se stessi e muoversi nel mondo in accordo con ciò che sono.
Capita di sentire – in riferimento magari a manifestazioni o eventi – che le organizzatrici hanno ipotizzato o espressamente richiesto l’assenza maschile. Il femminismo cosiddetto separatista rischia di riprodurre, semplicemente cambiandole di segno, quelle stesse dinamiche tipiche del patriarcato. La faccenda, sia chiaro, è delicata: io credo che sia giusto che gli uomini imparino ad accettare che le donne creino spazi e luoghi solo femminili. Ma temo che il potere di questo tipo di iniziative sia piuttosto limitato: le donne hanno spesso potuto crearsi delle loro oasi di scambio e confidenza, anche nei contesti più tradizionali e chiusi. Il problema non sta tanto lì: il problema è la posizione delle donne nel complesso della società.
Sarebbe ben più incisivo ad esempio dare vita a forme di partecipazione maschile “condizionata”: ovvero dare la possibilità agli uomini di esserci ma a patto magari di accettare modalità di partecipazione decise della donne, o che comunque mettano in discussione le narrazioni che continuano ancora oggi a modellare i rapporti tra i generi. Ritengo che qualsiasi uomo interessato al femminismo debba necessariamente tenere conto del privilegio che la società gli riconosce per il semplice fatto di essere uomo, e deve quindi essere pronto a mettere in discussione questo privilegio.
Una cosa che a me piace dell’essere e del dirmi femminista è la dimensione di apertura che la mia condizione mi offre. Sono un ragazzo e mi impegno per i diritti delle donne, scrivo e penso per supportare la liberazione delle donne e del femminile (in qualsiasi corpo esso si trovi incarnato). Mi piace parlare di e con le donne, mi piace l’idea di combattere per qualcosa che mi riguarda sì, ma che riguarda soprattutto qualcun altro. In questo senso, anzi, se il femminismo elaborato dagli uomini riesce a salvarsi dal pericolo del paternalismo o dell’occupazione indebita, credo possa giungere a qualcosa di davvero importante: il desiderio non egoriferito di promuovere il bene di qualcun altro.
“Femminismo” è un termine ombrello: tiene dentro tanto cose, e credo davvero che nel femminismo ci sia spazio per le donne che vogliono parlrare solo alle altre donne, così come per quelle che si rivolgono a tutti, per gli uomini che vogliono apportare il loro contributo impegnandosi direttamente nelle rivendicazioni femministe e per quelli che invece decidono di fare la loro parte in privato, all’interno delle relazioni quotidiane. L’unica cosa per cui non ci deve essere spazio, mai, è la prevaricazione. Da questo punto di vista è meglio che un uomo non parli di femminismo se non ne ha ben chiaro il presupposto: ovvero riconoscere che il patriarcato è una patologia sociale ancora viva e in salute, che ci determina anche al di là della nostra volontà.
Gli uomini insomma possono essere alleati del femminismo e possono dirsi femministi, a patto di rendersi conto adeguatamente della loro posizione. Uno dei contributi più preziosi che gli uomini possono dare alle battaglie femministe è, ad esempio, la messa in discussione del comportamento maschile stesso. Sono perlopiù gli uomini a opprimere e limitare la libertà femminile ed esiste senza dubbio tutta una sfera di questioni e di temi femministi alla quale gli uomini hanno accesso più facilmente, perché interessa soprattutto ciò che gli uomini fanno, dicono e pensano.
Rispetto a queste questioni la voce maschile può forse davvero aiutare a cambiare le cose: una sensibilizzazione che, partendo dagli uomini, si dirige ad altri uomini. È ciò di cui il femminismo forse oggi avrebbe più bisogno: occorre che diventi sistematico l’impegno concreto di uomini in grado di riflettere, pensare e scrivere su se stessi e sull’identità maschile in generale in nome di un futuro più giusto, decostruendo e smantellando l’ammasso di stereotipi e luoghi comuni che ancora affliggono tutti: uomini, donne e ciò che tra essi si crea o si distrugge.
Source: freedamedia.it