Un Paese sempre più secco in cui piove di meno ma con un consumo pro capite di acqua in costante aumento. Se a ciò si aggiunge l’annoso problema della dispersione idrica, ecco spiegati gli allarmi lanciati da più parti anche in Italia lo scorso 22 marzo, in occasione della “Giornata mondiale dell’acqua”. Basta passare in rassegna qualche numero per capire che la metafora del colabrodo applicata alla nostra rete idrica non è affatto una forzatura, anzi descrive al meglio un sistema disseminato di falle che necessita di essere ammodernato dalle fondamenta se si vuole impedire il graduale prosciugamento dell’oro blu di cui disponiamo. Stando ai dati diffusi dall’Istituto di ricerca sulle acque (Irsa) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’estate del 2017 è stata la quarta più asciutta degli ultimi due secoli in Italia, fattore che ha assegnato a Roma il primato tra le 571 città europee maggiormente inondate dal caldo. Il lago di Bracciano, ridotto a uno stagno per dissetare la Capitale, è l’immagine emblematica di un sistema di bacini idrici che fa acqua da più parti. Dei 543 grandi invasi presenti in Italia, 89 non hanno mai funzionato, mentre gli altri 8.000 piccoli invasi sparsi sul territorio nazionale si stanno rivelando insufficienti per tenere il passo di modelli di consumo sempre più orientati allo spreco. Ed è qui che si innesca il primo cortocircuito. Secondo un recente rapporto dell’Istat, fra i 28 Paesi membri dell’Ue l’Italia è quello in cui si fa più uso potabile di acqua. Nel 2017 ne sono stati prelevati a tale scopo 9,49 miliardi di metri cubi, 156 metri cubi per abitante. Il problema è che questa richiesta si è scontrata con un’accentuata carenza di risorse idriche disponibili nei quattro principali bacini idrografici del Paese – Po, Adige, Arno e Tevere – le cui portate hanno registrato una riduzione media complessiva del 39,6% rispetto alla media del trentennio 1981-2010. A pagarne le conseguenze sono state tante famiglie italiane: 2,6 milioni (il 10,1% del totale) hanno lamentato irregolarità nel servizio di erogazione dell’acqua, generando il malcontento più alto dal 2011. Peggio è andata al Mezzogiorno, soprattutto in Calabria e Sicilia, dove a rimanere senz’acqua è stato un terzo delle famiglie.
Il problema della dispersione
Le criticità del nostro sistema di approvvigionamento, gestione e controllo delle risorse idriche emergono in tutta la loro gravità nel dossier realizzato da Legambiente e Altraeconomia: “Acque in bottiglia. Un’anomalia tutta italiana”. Nel fare luce sull’enorme giro d’affari che nel nostro Paese ruota attorno all’acqua imbottigliata (10 miliardi di euro all’anno) – in cui è la plastica a farla da padrona (il 90-95% delle acque viene imbottigliato in contenitori di plastica, solo il 5-10% in quelli in vetro) – e sui canoni irrisori che le aziende del settore pagano alle Regioni (non oltre i 2 millesimi di euro al litro), il rapporto risale al perché dell’inadeguatezza della nostra rete idrica. Il valore della dispersione media di acqua è del 40,6% contro il 23% del resto d’Europa, il 60% degli acquedotti italiani ha un’età superiore a trent’anni (il 24% ha più di cinquant’anni) e su 350.000 chilometri di tubazioni almeno la metà risulta da riparare o sostituire. A ciò si sommano i casi di contaminazione dell’acqua potabile, collegati all’inquinamento delle falde utilizzate per l’approvvigionamento o per problemi lungo la distribuzione, e la poco risolutiva politica del razionamento, soluzione emergenziale con cui però molte zone d’Italia si sono ormai abituate a convivere tutto l’anno. Nell’insieme ciò crea una sfiducia nei confronti dell’acqua del rubinetto, che oggi riguarda circa un terzo delle famiglie italiane. «Si tratta però di situazioni puntuali per lo più note e segnalate dalle autorità competenti, che non devono essere generalizzate su tutto il territorio nazionale – sottolinea Andrea Minutolo, coordinatore scientifico di Legambiente e curatore del rapporto – I controlli sull’acqua che arriva nelle nostre case sono molto accurati e frequenti, a Roma ad esempio ne vengono eseguiti circa 250mila all’anno, e la normativa è in continuo aggiornamento, a livello europeo, con la discussione iniziata il primo febbraio della nuova direttiva sulle acque potabili, il cui obiettivo è proprio quello di incrementare l’utilizzo di acqua di rubinetto e ridurre l’eccessivo consumo di bottiglie di plastica, e nazionale, dove si sta sperimentando lo strumento dei Water safety plan. Questo si pone l’obiettivo di prevenire i problemi qualitativi sulle acque potabili e al tempo stesso rafforza la rete dei controlli e le modalità di comunicazione, informazione e trasparenza».
Ma quanta acqua perdiamo? A rispondere è il rapporto “Accadueo 2018-2020”, elaborato dal Cresme sugli ultimi dati utili forniti dal Siope (Sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici) e dalla Fondazione Utilitatis riferiti al 2016, anno in cui la nostra rete idrica ha perso il 39% dell’acqua trasportata nelle case. Se a Milano, Trento e Bologna le perdite sono contenute (fra il 16 e il 26%), al Sud e nelle isole la situazione risulta decisamente peggiore. Fra le grandi città la maglia nera spetta a Cagliari (58% di acqua dispersa), ma anche Roma non se la passa bene (47%). Il problema è che negli ultimi anni gli enti locali e i gestori, sia pubblici che privati, hanno speso sempre meno soldi in manutenzione, passando rispettivamente da 700 milioni e 1,2 miliardi di euro del 2012 a 511 milioni e 1,1 miliardi nel 2016. Meno si spende più le tubature si ostruiscono, più la rete di drenaggio è inefficiente, più gli impianti di depurazione sono sovraccarichi, finendo spesso per contribuire all’allagamento delle città.
Come trattenere più acqua
L’altro grande problema di cui soffre la rete idrica italiana è l’incapacità di trattenere l’acqua piovana. L’Italia, con circa 300 miliardi di metri cubi d’acqua che cadono annualmente, è infatti un Paese piovoso, ma a causa delle carenze infrastrutturali ne trattiene solo l’11% lasciando che il resto finisca in mare. I danni della mancanza di un’adeguata rete di invasi, capace non solo di conservare acqua per i periodi di bisogno ma anche di contribuire alla riduzione del pericolo delle piene fluviali, sono gravissimi e a soffrirli particolarmente è l’agricoltura, come denunciato dall’Anbi, l’Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue. «Nel nostro Paese sulla questione acqua – ha commentato di recente il presidente Francesco Vincenzi – gravano problemi di legalità: dagli oltre diecimila pozzi abusivi, soprattutto al Sud, alle grandi opere idrauliche incompiute, fino alla prassi dei commissariamenti di enti sine die. Non solo: su un bene pubblico quale le risorse idriche crescono gli interessi speculativi secondo logiche finanziarie e culture della tariffazione, non certo di interesse comune». L’approvazione di una legge contro il consumo indiscriminato di suolo e l’avviamento del Piano nazionale invasi, attraverso il quale si potranno ricaricare le falde puntando su progetti innovativi come i pozzi bevitori e le aree di infiltrazione naturale, sono secondo l’Anbi due passaggi necessari per mettere a regime il trattenimento delle risorse idriche.
Quali soluzioni?
L’accelerazione dei cambiamenti climatici e ambientali impone una profonda ristrutturazione del sistema idrico del Paese. Il passo principale da compiere è lasciarsi alle spalle le soluzioni emergenziali e puntare, piuttosto, su una gestione sostenibile delle risorse che possediamo. È necessario implementare gli investimenti per migliorare le infrastrutture e impedire dispersioni lungo la rete idrica, occorre trattenere l’acqua piovana, ad esempio potenziando la rete di invasi sui territori, creando nuovi bacini utilizzando anche le ex cave e le casse di espansione dei fiumi come propone Coldiretti. Ma serve anche riutilizzare l’acqua già usata, promuoverne un uso più efficiente a casa così come nel comparto agricolo e industriale, monitorare gli eventi pericolosi in modo da prevenire l’insorgere delle criticità e superare i mesi di siccità senza essere costretti a svuotare i laghi come è accaduto a Bracciano. Molto può essere fatto nell’agricoltura sviluppando sistemi di irrigazione a basso impatto e puntando su colture meno idroesigenti. E una mano deve arrivare ogni giorno da ognuno di noi. Basta prestare più attenzione ai rubinetti che gocciolano, non lasciare scorrere troppa acqua quando si lavano alimenti e stoviglie, usare gli elettrodomestici in modo equilibrato. «I temi dell’economia circolare – spiega il direttore dell’Irsa, Vito Felice Uricchio – trovano nell’acqua un archetipo consolidato e importantissimi spazi di conoscenza e di ricerca e sviluppo. L’incremento delle temperature deve indurre a progettare opere che limitino il rischio di alluvioni e l’evaporazione nei periodi più caldi, quali gli invasi sotterranei oggi resi possibili anche in Italia dal decreto 100/2016 (per l’autorizzazione al ravvenamento o all’accrescimento artificiale dei corpi idrici sotterranei, ndr).
Gli invasi sotterranei consentono la ricarica delle falde con acque di buono stato chimico, poiché favoriscono l’autodepurazione, e offrono numerosi vantaggi di sostenibilità economica e ambientale: riducono il rischio idraulico e di erosione costiera, prevengono la subsidenza, evitano l’interrimento e non prevedono significativi consumi di suolo. Gestire l’acqua in modo sostenibile significa creare nuovi equilibri tra risorse idriche, bisogni primari dell’uomo, sviluppo e ambiente. L’acqua è molto più di un bene commercializzabile, è un elemento di vita». Se mettiamo l’acqua in circolo, l’acqua continuerà a darci i suoi frutti. Solo così potremo preservare questo grande patrimonio.
Source: lanuovaecologia.it
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