Tredici, titolo originale TH1RTEEN R3ASONS WHY, è la nuova serie Netflix che sancisce una verità già nota a tutti tra i banchi di scuola: il vero teen drama è un thriller.
Il teen drama è una serie TV che ha come protagonisti teenager alle prese con i drammi dell’adolescenza, tipicamente ambientata a scuola. Gli argomenti sono di conseguenza legati alle relazioni di amicizia e amore all’interno di un gruppo, ma possono toccare molte tematiche diverse correlate a questo particolare periodo della vita, come il rapporto con i genitori, gli insegnanti, l’emarginazione, l’alcool, le droghe, etc.
Il teen drama per eccellenza è la serie che ha ritratto gli adolescenti degli anni Novanta, Beverly Hills 90210.
In onda per 10 stagioni tra il 1990 e il 2000, è stata la serie che ha iniziato a cambiare il modo di raccontare gli adolescenti in tv, trattando argomenti all’epoca caldi e taboo allo stesso tempo: AIDS, omosessualità, dipendenza da droghe.
Il lieto fine era previsto – Brenda e Dylan felici e contenti – e nemmeno con Shannen Doherty che lascia il set viene messo in discussione. Semplicemente, nell’eterno dilemma tra la mora e la bionda, vince la bionda: il finale diventa Kelly e Dylan felici e contenti.
Già, perché lo schema delle superiori è chiaro a tutti: c’è un maschio alpha, più o meno tormentato, più o meno leader o più o meno outsider, da salvare o da conquistare, e ci sono almeno una mora e una bionda amiche per la pelle destinate a litigare per contenderselo.
Con la fine degli anni Novanta, precisamente nel 1998, debutta il teen drama destinato alla generazione successiva: Dawson’s Creek. Questa volta la mora è Joey, la ragazza delle porta accanto, la bionda è Jen, la malafemmina, l’eroe è il ragazzo dai riccioli d’oro che non ha nulla del leader o dell’outsider ma passa il tempo a riflettere – è forse l’antesignano sdolcinato del nerd? Ommioddio forse sì – e l’antieroe è il suo migliore amico, il belloccio e stupidone Pacey.
Decisamente più sentimentale e introspettivo rispetto a Beverly Hills, Dawson’s Creek finisce in tragedia con la morte di Jen, la ragazza di città che aveva messo in moto la – pochissima – azione del telefilm, osando sfidare la ristretta mentalità della provincia americana. Tutti tranquilli, la strega brucia.
L’ultima stagione di Dawson’s Creek va in onda nel 2003, l’anno in cui debutta The O.C., serie tv scritta da Josh Schwartz, lo stesso che poi firmerà anche Gossip Girl.
The O.C. è principalmente la storia di poveri ragazzi ricchi che incontrano ricchi ragazzi poveri. La bionda è la bella e tenebrosa Marissa, la mora è la bella e solare Summer (se non fosse stato abbastanza chiaro), il biondo questa volta è a pieno titolo l’outsider carismatico Ryan e il nerd è Seth, fratello adottivo di Ryan.
Marissa, ribelle e autodistruttiva, sprofonda in un tunnel di disagio fatto di alcol e droga. Muore tragicamente in un incidente stradale e inizia ad essere chiaro che nessuno esce vivo dall’adolescenza. Il maschio alpha non riesce a salvarla.
Eravamo nel 2007, Marissa era morta, Britney era andata fuori di testa e nessuno di noi si sentiva tanto bene.
Un ritratto più fedele della crisi degli adolescenti del nuovo millennio arriva con Skins, la storia di un gruppo di studenti che affronta gli ultimi due anni del liceo nella cittadina di Bristol, in Inghilterra. E non è proprio tutto rose e fiori.
Skins è il teen drama che, insieme al suo figlio putativo Skam, ha sconvolto il pubblico per la franchezza e l’assenza di pudore con cui ha saputo parlare degli adolescenti, senza più mezzi termini, filtri e leziosità, segnando uno scarto decisivo tra i teen drama europei e quelli americani. Il risultato è un caleidoscopio di inquietudini, sogni, speranze e tormenti vivido come poche cose si sono viste in tv, capace in ugual modo di brutalità e poesia.
Già, perché l’adolescenza è un periodo terribile, pieno di incertezze e umiliazioni, ricerca di identità e frustrazione, ribellione nei confronti dei genitori ma spasmodico desiderio di approvazione da parte dei compagni. Un periodo che ti cambia per sempre, troppo spesso raccontato dal punto di vista dei vincitori: i ragazzi più popolari della scuola, quelli belli, apprezzati, che sanno chi sono e dove vogliono arrivare, felicemente accoppiati alla loro speculare versione del sesso opposto. Il campione di baseball e la cheerleader, il re e la reginetta del ballo.
Ma che cosa si nasconde sotto il loro successo? Che cosa davvero ti porta a essere popolare al liceo o alle superiori?
Thirteen Reasons Why ha una risposta chiara e precisa a questa domanda:
The popular kids are always mean. That’s how they get popular.
Thirteen Reasons Why è la storia delle 13 motivazioni che hanno portato al suicidio la liceale americana Hannah Baker, raccontate dalla stessa Hannah in 13 audiocassette, destinate alle persone coinvolte in quelle 13 piccole o grandi azioni che le hanno tolto ogni speranza o voglia di vivere.
Come dicevo, il teen drama è diventato ufficialmente un thriller: non l’idealizzazione delle mean girls, che con le loro scaramucce e scaltrezze risultano alla fine delle simpatiche belle stronze, ma un racconto vissuto in prima persona che ci fa riflettere sul fatto che il modo con cui trattiamo le persone, senza sapere che cosa quelle persone stanno davvero attraversando in quel momento, ha sempre delle conseguenze.
A rumor based on a kiss ruined a memory I hoped would be special. In fact, it ruined just about everything.
La storia di Hannah Baker è tratta dal romanzo di esordio di Jay Asher, uno dei libri più letti dai ragazzi americani negli ultimi dieci anni, con più di due milioni e mezzo di copie vendute soltanto negli Stati Uniti.
Forse anche per questo la serie su Netflix ha battuto Stranger Things, Orange is the New Black e House of Cards.
Come spesso accade negli adattamenti, molti particolari della serie sono diversi dal libro, in particolare colpisce la scelta del creatore di TH1RTEEN R3ASONS WHY, Brian Yorkey, di cambiare le modalità di suicidio di Hannah – nella serie TV si taglia le vene, nel libro ingoia delle pillole. Il motivo? Rendere meglio, visivamente, la tragicità del gesto.
Perché un’adolescente di 17 anni armata di iPhone dovrebbe utilizzare delle vecchie audiocassette per incidere una serie di messaggi che spiegano le ragioni del suo suicidio?
Oltre al gusto vintage per dispositivi obsoleti, c’è una ragione legata al controllo della diffusione delle informazioni. Hannah ha dedicato ogni episodio della sua narrazione a un personaggio coinvolto nella sua vita, e vuole che tutti questi personaggi ascoltino le sue cassette uno alla volta, nell’ordine stabilito.
The rules here are pretty simple. There are only two. Rule number one: you listen. Number two: you pass it on. Hopefully, neither one will be easy. It’s not supposed to be easy, or I would have emailed you an MP3. When you’re done listening to all 13 sides, because there are 13 sides to every story rewind the tapes, put them back in the box, and pass them on to the next person.
In fondo, anche le agenzie di sicurezza americana usano tecnologie obsolete per minimizzare il rischio di bug.
La struttura narrativa di Tredici è perfetta per il binge watching: la struttura degli episodi della serie è infatti identica alla struttura degli episodi delle audiocassette registrate da Hannah. Il punto di vista dello spettatore coincide quindi completamente con il punto di vista di chi ascolta quelle cassette, nello specifico quello di Clay Jensen, è il suo turno quando entriamo nella storia. È molto immediato quindi empatizzare con il crescendo di attrazione e rigetto, fiducia e incredulità, passività e rabbia che prova Clay nei confronti della storia di Hannah.
È grazie a questa struttura, e a quelle registrazioni, che siamo in balia del racconto di Hannah, a cui – in quanto morta – siamo portati ad attribuire il punto di vista di un narratore onnisciente.
Ma lo è davvero?
See, I’ve heard so many stories about me now that I don’t know which one is the most popular. But I do know which is the least popular. The truth. See, the truth isn’t always the most exciting version of things, or the best or the worst. It’s somewhere in between. But it deserves to be heard and remembered. The truth will out, like someone said once. It remains.
Hannah si presenta con una missione ben precisa: far conoscere la verità. Perché?
Per un adolescente la propria identità pubblica è un importante strumento di comprensione di sé e di definizione del proprio rapporto con gli altri, ma nel mondo del liceo, soprattutto nell’epoca dei social network, questa identità pubblica viene costruita sulla base dell’abolizione totale della privacy – tutti sanno tutto di tutti – e spesso anche sulla base di interpretazioni sbagliate o diffusione di notizie false.
Questo perverso meccanismo di gossip è profondamente legato alla costante ricerca di popolarità, sia da parte di chi parla o sparla, in quanto detentore di informazioni di interesse pubblico, sia da parte di chi è oggetto di gossip. In quest’ultimo caso, però, i valori della comunità di riferimento sono fondamentali per capire quando il gossip si trasforma in popolarità “positiva”, quindi potere, e quando in gogna pubblica, quindi umiliazione.
Non a caso, Clay, il personaggio a cui è affidata la storia di Hannah nel primo episodio, è anche quello più estraneo alle dinamiche del gossip scolastico:
You are who you are, and you don’t care. And I always cared what other people thought of me, as much as I acted like I didn’t.
Hannah è vittima di questa gogna pubblica fin dalla prima puntata, ma con lo sviluppo della storia il suo punto di vista si intreccia a quello di altri personaggi: Hannah è davvero una vittima innocente o è soltanto una drama queen a caccia di attenzioni?
Ecco, questa domanda già aderisce ai valori di quel liceo: se anche fosse una drama queen, avrebbe meno diritto al nostro rispetto? O tutti i personaggi, in un modo o nell’altro, sono sia vittime che carnefici?
Una delle frasi più ripetute dai personaggi è You know that or you wanna believe it?. Il tema della verità da scoprire è sicuramente cruciale, ed è uno dei classici motori del thriller: chi ha ucciso Hannah Baker? Ma forse non è il più importante.
Per capire quanto TH1RTEEN R3ASONS WHY è diverso dai classici teen drama americani, basta pensare che qui la cheerleader della situazione – Jessica – è nera.
L’approccio a tematiche come lo slut shaming, il coming out, il binge drinking è sempre diretto, realistico, mai edulcorato o teorizzato in modo vacuo e pretestuoso.
E altrettanto spietato e realistico è il ritratto delle istituzioni e del loro impatto sulla vita dei ragazzi. La domanda che tutti gli adulti continuano a fare agli studenti della scuola – Do you know anything about any kids getting bullied at your school? – sembra completamente avulsa dalla realtà, al punto che è quasi impossibile rispondere: ogni giorno tutti i ragazzi subiscono qualche forma di violenza a scuola.
Forse è sempre stato così, forse lo sarà sempre. Ma c’è un messaggio importante di cui TH1RTEEN R3ASONS WHY si fa portatore:
Cause people need to take responsibility for their actions and face the consequences, one way or another.
L’aiuto degli adulti arriva sempre troppo tardi: con poster dai messaggi ridicoli o procedure lontane dalla vita delle persone, sembrano i primi a volersi deresponsabilizzare. Anche quando è il momento di punire – anche quando i ragazzi cercano disperatamente una punizione, un punto di riferimento – la scuola si sottrae al proprio ruolo.
The overarching lesson is that actions have consequences.
È questa la lezione che vuole dare Hannah, una lezione che la scuola non è più capace di dare: tutte le nostre azioni hanno delle conseguenze, di cui dobbiamo prenderci la responsabilità.
TH1RTEEN R3ASONS WHY è una serie che non ha paura di guardare dritto dentro la vita degli adolescenti, anche a costo di trattare tematiche estremamente delicate, come ovviamente il suicidio.
Alla luce di uno studio della American Foundation for Suicide Prevention, “Il rischio di suicidi aggiuntivi aumenta quando una storia descrive esplicitamente il metodo di suicidio, usa titoli drammatici o immagini grafiche, e sensazionalizza o romanza una morte in modo ripetuto o esagerato”.
TH1RTEEN R3ASONS WHY ha quindi sollevato un ampio dibattito in America, anche a causa delle immagini molto forti che ritraggono il suicidio di Hannah.
Come riporta Entertainment Weekly, che ha parlato con la dottoressa Christine Moutier della American Foundation for Suicide Prevention, l’importante è non mostrare tramite un prodotto mediatico che a un pensiero suicida non c’è via d’uscita: la serie, al contrario, suggerisce ripetutamente che Hannah ha scelto un percorso, tra diversi percorsi possibili.
Se affrontare il suicidio in maniera così esplicita in un teen drama è certamente controverso, censurare l’argomento non può di certo eliminare il problema: “Crediamo fortemente che sul tema del suicidio sia importante alzare la voce” ha dichiarato la dottoressa Moutier, che tuttavia ha spiegato di non aver guardato TH1RTEEN R3ASONS WHY. “Non è che tutte le rappresentazioni sono cattive – è così che succede, ed è per questo che serve un messaggio di prevenzione”.
La serie è stata prodotta da da Selena Gomez, che ha un legame personale con i temi trattati visto il suo rapporto burrascoso con la popolarità e i suoi problemi di ansia e depressione. Insieme a Selena, Tommy Dorfman, Alisha Boe e Brandon Flynn – alcuni attori del cast – Selena si è tatuata un piccolo punto e virgola sul polso, a sostegno di una associazione non-profit a favore della prevenzione del suicidi.
Source: freedamedia.it