Questo nome ormai esiste da un po’ di tempo – precisamente dal 1993 – e come tutte le etichette che iniziano ad avere una storia indica una molteplicità di aspetti o caratteristiche inerenti a una categoria. Di quali siano le caratteristiche che definiscono la nostra generazione si è scritto tantissimo: alcuni articoli su questo tema sono diventati molto famosi, come quello scritto da Joel Stein per il Time nel 2013, finito anche in copertina: il titolo era Millennials: The Me Me Me Generation e sotto c’era una ragazza sdraiata e intenta a farsi un selfie. Insomma, se diamo un’occhiata a questi articoli ci accorgiamo che non sono sempre state dette cose bellissime su di noi, anzi. Si dice che siamo pigri, che abbiamo poca voglia di fare, che siamo convinti che ci sia tutto dovuto e che siamo impazienti.
Nonostante la nostra sia una generazione giovane questi luoghi comuni sono così radicati che abbiamo iniziato già ad avere il bisogno – conscio o inconscio – di difenderci o giustificarci. Basta pensare al video virale in cui Simon Sinek, esperto di marketing e teorie motivazionali, parla di tutte le cose negative che si dicono sui millennials, cercando in qualche modo di difenderci e di dire che, in fondo, non è colpa nostra se siamo così.
Bene, io ho guardato più volte quel video e per quanto tocchi certe corde in cui possiamo identificarci facilmente, al tempo stesso è come se dicesse che in effetti noi siamo proprio tutte quelle cose che vengono dette di noi.
È vero che generalmente i Millennials pongono l’asticella dei loro obiettivi lavorativi molto in alto: vogliamo fare un lavoro che ci piace, non un lavoro mediocre. Ora, qualcuno potrebbe pensare “grazie, ma a chi piace l’idea di fare un lavoro mediocre?” È ovvio che nessuno vorrebbe fare un lavoro che non gli piace, ma per noi le cose stanno diversamente. I bassi stipendi, la precarietà dei contratti, gli affitti elevati ci rendono così difficile il raggiungimento di una stabilità economica, che, nel momento in cui capiamo che non l’avremo mai, allora scegliamo, almeno, di fare quello che ci piace.
In passato, i nostri genitori accettavano di fare anche lavori che non gli piacevano perché avevano la certezza di portare a casa uno stipendio che gli avrebbe permesso di estinguere un mutuo prima di avere tutti i capelli bianchi. Noi non abbiamo neanche la possibilità di scendere a compromessi, quindi perché mai, a parità di condizioni economiche, dovremmo scegliere di fare un lavoro che ci fa schifo e non invece provare a fare quello che ci piace?
Torniamo alla copertina del Time citata poco fa. Il sottotitolo era: “i Millenniasl sono dei pigri narcisisti che vivono ancora con i genitori”. Bene. Molti di noi vivono ancora con i genitori, oppure, anche chi inizia ad avere un’età in cui potrebbe legittimamente desiderare di vivere da solo (DA SOLO), in condivisione con almeno altre quattro persone. Su questo si veda il punto sopra: non è perché siamo pigri, ma è perché spesso vengono meno le condizioni economiche che ci permettono di farlo. Molti di noi, per quanto vogliano bene ai propri genitori, non sono felici di tornare, la sera, nella stessa casa in cui sono nati, cresciuti e hanno ballato le Spice Girls quando avevano 10 anni.
Da un punto di vista strettamente lavorativo è opinione diffusa che la nostra sia una generazione di pigri perché spesso ci vedono lavorare da casa o da un bar, perché, insomma, il nostro modo di lavorare non coincide più con quello tradizionale per cui si passavano 10-12 ore consecutive chiusi in un ufficio. Sappiamo bene però che lavorare da casa o da un bar non è per niente sinonimo di pigrizia, è semplicemente un “altro modo” di lavorare, che si accorda al modo in cui sono cambiati i mezzi attraverso cui si lavora e in cui si sono accorciati i tempi delle comunicazioni.
In generale, c’è questa convinzione malsana per cui lavora davvero solo chi lavora 24 ore su 24, sacrificando ogni aspetto della sua vita. Nel caso della nostra generazione questa convinzione si declina nell’idea che noi lavoriamo solo per portare a casa qualche soldo, non perché crediamo realmente in quello che stiamo facendo: non siamo devoti alla causa. Premesso che l’equazione lavorare tanto = lavorare meglio non sta in piedi, ed esistono una serie di studi che dimostrano il contrario, non è vero che noi non siamo dediti al nostro lavoro.
Penso a tutti i miei amici che stanno spesso in ufficio fino a tarda sera, ad esempio, ma non voglio ridurre tutto alla mia esperienza personale, quindi guardo ai dati: dicono che la nostra generazione è caratterizzata da un forte spirito imprenditoriale. Spirito imprenditoriale e poca dedizione alla causa non stanno molto bene insieme, anzi, sono un po’ un ossimoro. La verità è che, proprio perché cerchiamo di scegliere lavori che ci piacciono, lavorare ci piace e quindi siamo disposti a farlo anche ben oltre il canonico orario di lavoro. Proprio per questo, però, cerchiamo di metterci dei paletti, per evitare di uccidere definitivamente la nostra vita sociale, perché, sì, abbiamo una vita.
In inglese ci chiamano job hopper: cioè siamo quelli che cambiano spesso lavoro. Per “spesso” si intende che non siamo capaci di resistere più di un anno nello stesso posto, a volte ce ne vogliamo già andare dopo qualche mese. Perché? Perché in alcuni casi pensiamo di aver già inquadrato l’ambiente dopo poco tempo, oppure perché siamo convinti di meritare una promozione che non arriva, e allora andiamo a cercarla da un’altra parte. Premessa: chiunque abbia cercato lavoro sa quanto chiedano un determinato tipo di esperienza, che non è più solo temporale, ma anche qualitativa. Spesso, tra i requisiti di candidatura per una certa posizione, leggiamo che è richiesta un’esperienza di tot tempo in qualità di un determinato ruolo.
Questo significa che se cambiamo lavoro perché non riusciamo ad accumulare l’esperienza che ci serve lì dove siamo non è perché stiamo facendo i capricci, ma è perché è il mercato stesso del lavoro a imporci questa mobilità. Tanya de Grunwlad, che ha fondato il sito Graduate Fog, tramite cui aiuta i ragazzi laureati a trovare lavoro o a capire cosa vogliono fare, ha osservato che quando ci sentiamo valorizzati e i nostri sforzi vengono riconosciuti non cambiamo affatto posto di lavoro, ma restiamo dove siamo. È quando non succede che ce ne andiamo. Del resto, va bene lo spirito di sacrificio, ma perché mai dovremmo rimanere a vita in un posto in cui accumuliamo solo frustrazioni?
Inoltre, secondo un sondaggio svolto da Deloitte, non è vero che la nostra generazione cambia lavoro con più frequenza di quella passata: a quanto pare, anzi, dagli anni ’80 ad oggi, questa frequenza è rimasta pressapoco invariata.
Non siamo dei cattivi dipendenti. Alcune cose che facciamo sul posto di lavoro non vengono capite perché sono diverse dal modo in cui sono state fatte fino a qualche anno fa. Nessuno ha la pretesa di affermare che una modalità sia migliore di un’altra, ma sarebbe bello riuscire a sviluppare un metodo per integrare le diverse prospettive generazionali nei diversi luoghi di lavoro. È quello che ha cercato di fare Patrice Thompson, da poco laureata alla London School of Economics e esperta in questo settore, durante un Ted Talk molto bello, che vi consiglio di ascoltare, perché può essere utile. Titolo: Closing the gap. A millennial proposal for a happy multigenerational workplace.
Source: freedamedia.it
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