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Silvia Romano: due mesi dal rapimento

Sessanta giorni dal sequestro. Quindici giorni senza notizie. Di Silvia Romano, rapita il 20 novembre 2018 nel villaggio di Chakama a circa 80 chilometri da Malindi in Kenya, non si sa nulla da giorni. Quello che sembrava dover essere un rapimento lampo, con una soluzione positiva e rapida, si sta prolungando senza un’apparente ragione. Dalle notizie che raccontavo un’immediata liberazione, si è passati al silenzio, per poi arrivare a dire, da parte della polizia keniana, che si è in possesso di informazioni “cruciali”, ma poi, proprio all’inizio di quest’anno, che sì, “sono stati fatti arresti”, ma le persone implicate non hanno fornito alcuna informazione chiave.

Un ginepraio dove è facile nascondersi

L’unica cosa certa è che permane il coprifuoco nell’area del Tana River dove gli investigatori ritengono sia nascosta la cooperante italiana. Ma anche su questo punto sono numerose le contraddizioni. La prima ipotesi è stata che Silvia fosse nascosta a sud del fiume Tana, un’area ancora accessibile alle forze di sicurezza di Nairobi, poi l’area si è allargata, comprendendo anche la foresta di Boni, a nord del fiume verso il confine con la Somalia, un’area di 1350 chilometri quadrati. Un ginepraio dove si nascondono tutti, gruppi di terroristi somali legati ad al Shaabab, indipendentisti della costa e criminali comuni.

A tale proposito le forze di sicurezza hanno assicurato che tutte “le vie di fuga verso la Somalia” sono state sigillate. Una buona notizia che ha fatto dire alla polizia che “Silvia è viva ed è in Kenya”. Ma, se davvero la giovane italiana si trova nella foresta di Boni, il passo verso la Somalia è breve. Ma dobbiamo stare a ciò che dice la polizia.

L’altro puzzle: che ne è della banda di sequestratori?

Cosa significano quindici giorni di silenzio? Tutto e il contrario di tutto. Di sicuro proseguono le ricerche. Si seguono le tracce, la polizia non si dà per vinta, anzi, è sicura di vincere la battaglia. Ma c’è ancora una notizia che fa pensare. Silvia sarebbe nascosta da qualche parte nell’area del Tana River con quel che resta della banda di criminali comuni che l’ha rapita il 20 novembre scorso.

Con quel che resta, perché uno dei tre componenti il commando, Ibrahim Adan Omar, è stato arrestato nel villaggio di Bangale. In casa aveva un fucile mitragliatore e 100 munizioni. Quindi Silvia sarebbe nelle mani di Yusuf Kuno Adan e Said Adan Abdi. Almeno secondo gli identikit diffusi dalla polizia. Questo cosa vuol dire: che la banda si è disgregata? Perché? Oppure significa che nel “gioco” è entrato qualche altro soggetto? Domande a cui dovrebbero rispondere gli investigatori. Una richiesta, inoltre, che arriva anche da parte della società civile keniana che, attraverso i social, chiede al governo del loro paese conto del fatto che non vengano diffuse più sue notizie. Perché?

Una rete di sostegni criminali

La polizia rimane convinta che la banda di sequestratori sia composta da criminali comuni. E questo è un tema spinoso in Kenya, come in altri paesi africani. Criminalità alimentata proprio dai giovani che nel paese non vedono opportunità per il futuro e le prospettive le cercano in guadagni facili, alimentando il crimine. Sono giovani che si vendono per il costo di una motocicletta di bassa qualità, per 3-4mila dollari, e sono disposti a tutto pur di guadagnare.

Di certo, ancora, c’è che i rapitori hanno ricevuto l’aiuto di ufficiali e sottufficiali del Servizio Parchi del Kenya, corrotti. Lo dimostra l’arresto di un alto ufficiale. L’intento, evidentemente, era quello di spartirsi il bottino.

Poi, i rapitori hanno ricevuto l’aiuto della popolazione che vive in quell’area. Ad ammetterlo è stato lo stesso comandante della polizia della Contea del Tana River, Patrick Okeri, che ha sottolineato che “nessuno cammina a lungo nella boscaglia senza aiuto per acqua e cibo”. Da qui anche la decisione di imporre il coprifuoco nell’area così da indurre la popolazione a collaborare con la polizia.

Odi tribali

L’area del Tana River, dove si ritiene sia nascosta Silvia, è abitata da pastori Orma e Wardei oltre che dai contadini Pokomo. Comunità spesso in conflitto tra di loro. I Pokomo, pescatori o agricoltori che vivono lungo il Tana River, il fiume più lungo del Kenya, dipendono per la loro sopravvivenza, dai cicli del corso d’acqua per l’irrigazione dei loro raccolti. Gli Orma, invece, pastori semi-nomadi, hanno bisogno dell’accesso al fiume per abbeverare le loro greggi. Orma e Pokomo sono in conflitto da sempre, inoltre i primi sono musulmani e i secondi cristiani. Conflitti molto duri che hanno provocato decine di vittime e repressi dalla polizia senza riguardo, con azioni brutali. Stessa brutalità utilizzata durante una retata nei villaggi di Chira e Nilisa, che ha portato all’arresto di un centinaio di persone. La polizia, hanno accusato gli abitanti dell’area, ha picchiato e molestato senza alcuna ragione. Tutto ciò potrebbe spiegare la reticenza della gente ha collaborare con le autorità di uno Stato che spesso viene vissuto come assente o oppressivo. Ma spiega anche la facilità con la quale si possono reperire armi da fuoco, che circolano in abbondanza.

Il cooperante fermato

Che le ricerche di Silvia Romano proseguono senza sosta è dimostrato dal fatto che ieri un giovane italiano, 24enne, è stato fermato dalla polizia nel villaggio di Ngao proprio nell’area del Tana River, poi rilasciato insieme a una sua amica, perché in possesso di un visto turistico, mentre svolgeva, a detta sua, attività di cooperazione (notizia riportata dal sito malindikenya.net). Il giovane, un “cooperante fai da te”, è stato fermato in una zona ritenuta pericolosa e soggetta a coprifuoco, proprio perché la polizia ritiene che Silvia sia nascosta lì. Difficile che il giovane non sapesse della pericolosità della zona, visto che per 13 mesi ha collaborato con l’organizzazione Africa Milele, la stessa di Silvia, e proprio nel villaggio di Chakama teatro del sequestro.

Source: www.agi.it

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