Millenni fa, in Egitto, la Dea Nut rappresentava il cielo Superiore e il cielo Inferiore. Il suo corpo, raffigurato come un arco al di sopra della Terra, era ricoperto con tutte le stelle dell’emisfero nord o sud, a seconda che si trovasse al di sopra o al di sotto del mondo, o sul percorso diurno o notturno del Sole, Râ. Il corpo di Nut, lo spazio celeste, ricopriva quello di Geb, l’universo terrestre. E Thot, misuratore del tempo, era associato alla Luna.
I sacerdoti-scribi Egizi avevano annotato un certo numero di stelle e, partendo dalla posizione di una di esse, Sothis-Sirio, avevano costruito il loro calendario, che iniziava da giorno in cui tale stella si levava sull’orizzonte.
In Mesopotamia, ancora prima che in Egitto, si era disegnato lo zodiaco partendo dalle costellazioni. Alle figure mitiche immaginarie basate sugli agglomerati stellari formatesi nel cielo, erano stati attribuiti gin da prima del III millennio a. C., gli stessi nomi che ancora oggi utilizziamo.
I Babilonesi, in particolare, furono astronomi straordinari.
In Mesopotamia, a Babilonia e in Egitto, l’astronomia era utilizzata per scopi mitici e religiosi, mentre oggi il cielo è piuttosto un luogo di ricerca e d’indagine che suscita più enigmi di quanti ne risolva rispetto all’origine del mondo e della vita.
Ma, forse esiste un grande malinteso nella nostra civiltà, che più di quelle del passato, arriva a credere che le risposte e le soluzioni a tutte le questioni, così come a tutti i problemi si trovino nei cieli, nello spazio, nell’universo intersiderale, al di là di un buco nero o nel cuore di una supernova. Paradossalmente noi oggi, calati come siamo nelle difficoltà pratiche del quotidiano, sembra abbiamo perduto qualsiasi interesse per il mondo celeste e per tutte le realtà diverse dal nostro mondo.
Maura Luperto
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