Di ciò che scrivo, ricordo solo gli errori, le modifiche che farei, le cose che non ho detto e che alla fine mi sembrano le uniche davvero importanti; degli spettacoli teatrali che faccio, la mia attenzione spesso finisce per focalizzarsi sulle imperfezioni, le imprecisioni e tutto ciò che è andato storto. Mi considero una persona allegra e appassionata, ma anche oggettiva e questo perché, fondamentalmente, sono iper severa e critica con me stessa. Volente o nolente, questa è diventata la mia corazza ma anche il mio modus vivendi, in cui non faccio altro che anticipare le critiche degli altri, con l’idea di migliorarmi – un meccanismo di difesa anche banale, se vogliamo, talmente connaturato in me che non ci faccio neanche più caso. Peccato che quando questo atteggiamento prende il sopravvento, il risultato è esattamente l’opposto: invece che essere la mia prima sostenitrice, divento il mio peggior nemico.
Motivo per cui, ultimamente, mio fratello mi ha detto, con un certo stupore – e guardandomi come non faceva da tempo – perché fossi così dura con me stessa. In realtà non l’ha semplicemente detto, me l’ha proprio chiesto. E io sono rimasta lì, paralizzata, a ripensare a quello che gli avevo appena vomitato addosso – un loop fatto di “non sono buona a far niente” e “non ce la faccio“.
Dare più peso ai propri difetti e le proprie mancanze invece dei successi, è un’attitudine più comune di quanto si pensi – come se il nostro cervello ad un certo punto, cominciasse ad ascoltare le cattive notizie più di quelle positive. Ma perché succede? Secondo il dottor Richard Davidson, fondatore e direttore del Center for Healthy Minds alla University of Wisconsin-Madison “il nostro cervello è dotato di un meccanismo per monitorare la nostra mente e il nostro comportamento” in modo da poter accorgerci degli errori che facciamo e porvi rimedio. Questo meccanismo può aiutarci in molte occasioni, ma naturalmente perde di efficacia quando si trasforma in una spirale di giudizio che ci blocca, anziché migliorarci. Cosa fare dunque?
Secondo Dr. Kristin Neff, professoressa di psicologia alla University of Texas di Austin, la risposta è in una parola sola: compassione. Essere più gentili e comprensivi con se stessi, nel giudicare un fallimento o un proprio difetto.
Le ricerche dimostra che l’ostacolo numero uno alla compassione verso se stessi è la paura di gratificarsi e perdere il controllo. E tutte le ricerche dimostrano che non è vero, è esattamente il contrario.
Uno studio del 2016, ad esempio, dimostra come “la compassione verso se stessi porti a un miglioramento personale”. Se ci penso, l’idea di essere indulgenti verso se stessi e “compatirsi” non mi è mai suonata molto bene; mi è sempre sembrata un modo per sostenere la mia pigrizia e annullare in un colpo solo tutta la fatica che ho fatto per raggiungere una certa disciplina, che mi è servita nel tempo a limitare le mie derive. Eppure ho notato che l’eccessiva severità con cui spesso giudico i miei errori, non è solo il frutto di un nobile senso del dovere, ma anzi, nasconde la paura della severità altrui; come se essere dura con me stessa servisse da scudo a quella che potrebbe essere la brutalità degli altri – o ancora, impedisse a loro di giudicarmi, vedendo quanto già sono impietosa con me. Questa nuova consapevolezza mi ha fatto pensare che forse, anche il mio ammirevole senso della disciplina racchiude in realtà una confort zone un po’ pericolosa e vigliacca – e tutto sommato, provare un’altra strada, che contempli un giudizio più equilibrato – e perché no, più indulgente, positivo e propositivo, potrebbe esser un modo sano di volersi bene.
Come fare, dunque, a mettere in pratica questa compassione? Secondo il dottor Judson Brewer, direttore del Center for Mindfulness e professore in medicina e psichiatria alla University of Massachusetts Medical School, ci sono certi accorgimenti che possono aiutare: trovare attività per stare nel momento e uscire dalla spirale di pensieri negativi – come ad esempio la meditazione; lavorare sul linguaggio e trasformare i pensieri negativi in giudizi costruttivi – per cui frasi come “sei pigro e non vali niente” diventerebbero “stai facendo del tuo meglio”. In ultimo provare a trattarsi come faremmo con un amico: se dovessimo consigliarlo in un momento di difficoltà, non gli diremmo certo che non vale nulla e non può rimediare facilmente al proprio errore, ma, anzi, lo aiuteremmo a rimettersi in piedi, incoraggiandolo. Ecco, alcune volte dovremmo ricordarci che siamo i nostri primi sostenitori e amici. In ultimo, credo che possa aiutare riscoprire la leggerezza “come un valore e non un difetto” – per dirla con le parole di Calvino, scritte nella prima delle famose conferenze pensate per l’Università di Harvard alla metà degli anni ’80. Riscoprirla come una forza e non un vizio debilitante può essere davvero uno strumento potente per rivedere la propria condizione ed essere più obiettivi nel giudicarsi. Anche Ulisse ha tratto beneficio dall’essere nessuno, almeno una volta: forse vale la pena di provarci. E come scrisse Friedrich Nietzsche ne La gaia scienza:
Dobbiamo, di tanto in tanto, riposarci dal peso di noi stessi, volgendo lo sguardo là in basso su di noi, ridendo e piangendo su di noi da una distanza di artisti: dobbiamo scoprire l’eroe e anche il giullare che si cela nella nostra passione della conoscenza, dobbiamo, qualche volta, rallegrarci della nostra follia per poter restare contenti della nostra saggezza!
Source: freedamedia.it
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