A giugno del 2016 sono stata licenziata. Il giorno prima andava tutto bene, la mattina dopo ricevo una mail che dice: “Sali in amministrazione alle 17:30”. In quelle ore mi hanno detto tutti di non preoccuparmi, il mio contratto in fondo era fino a dicembre. Lavoravo lì da 11 mesi e il mio pensiero è stato: oh, neanche sta volta la soddisfazione di arrivare a un anno.
Perdere il lavoro fa sempre schifo, ma se posso permettermi, perderlo in estate fa uno schifo tutto suo. Innanzitutto la mente ti inganna, prova a vendertela come ferie anticipate. Altro che ferie, tu stai contando gli spicci per farti un’idea di come sopravvivrai nei prossimi mesi. Se stavi programmando una vacanza scordatela, idem gite fuori porta, idem la piscina. Anche andare al cinema diventerà un’impresa, una spesa folle che andrà ponderata dieci, venti volte.
Niente giova all’autocommiserazione come perdere il lavoro, specie se senti che le tue speranze di trovarne un altro sono pari a quelle di avere un focoso incontro sessuale con Ryan Gosling nei bagni dell’Ipercop. A nulla valgono i “siamo tutti sulla stessa barca”, perché la verità è che tu non riesci a tenerti un lavoro, tu non sai fare niente, tu non diventerai mai indipendente mentre tutte le persone che conosci hanno la vita facile, e fine della discussione. La tristezza rende egocentrici e la paura pure. In questo caso, i due elementi sono shakerati insieme come un cocktail gusto fango e sogni infranti.
La cosa divertente era che odiavo quel lavoro. Andavo d’accordissimo coi miei colleghi, ma a parte questo, era quello che gli americani chiamano uno “shit show”. I miei genitori, che si sono fatti il mazzo ai loro tempi, hanno un approccio semplice: se ti trovavi male, troverai di meglio. Ma nel dubbio di non trovarlo – anzi, che non esista “di meglio” -, la mia generazione ha imparato a rimpiangere anche il peggio.
Se avete letto fin qui vi starete chiedendo se arriva la luce, alla fine di questo articolo-tunnel, o se mi stia divertendo a deprimervi. Ebbene, la luce per me è arrivata, e nel mio piccolo vorrei darvi una mano a vedere la vostra, anche se non sono così arrogante da credere di rivelarvi chissà che scoperte. Non sono una guru, non ho formule magiche da insegnarvi. Ho solo le mie esperienze, un mestiere che mi permette di raccontarle e la fortuna di uno spazio dove farlo. È più di quello che avrei sperato, un anno fa.
Vi è stato fatto un torto? Nel vostro periodo di permanenza in azienda siete state maltrattate, sfruttate, o il datore di lavoro è venuto meno ai suoi obblighi nei vostri confronti? Chiedetevelo, parlatene con gli esperti, e valutate se prendere provvedimenti legali. Questo è un passaggio che in pochi prendono in considerazione, un po’ per paura delle spese e del tempo da dedicarvi (“è una menata!”), un po’ perché condizionati da una sorta di omertà lavorativa, per cui le ingiustizie si vedono, ma non si denunciano per paura di avere ripercussioni in futuro o peggio, per il quieto vivere.
Per quanto riguarda le spese, non ce ne sono. A parte il costo della tessera del sindacato da voi scelto (sui 60 euro), le spese legali sono coperte dal sindacato e attingeranno a una parte dei soldi che – eventualmente – riceverete. Si parla del 10% con un tetto massimo di 2000 euro. Fattibilissimo.
Per quanto riguarda il tempo, sì, è una menata. Ma non può essere una scusa. Se avevate un altro lavoro probabilmente non gestite una ONLUS, quindi dalla vostra presenza non dipendono vite umane. Nel mio caso, nel corso di un anno, sono stata al tribunale del lavoro tre volte e dal mio avvocato due. Circa 11 ore in tutto. Il tempo di bingeare una serie di 12 episodi.
Per quanto riguarda il resto, ragazze, parlate con la vostra coscienza. Forse, però, far passare l’idea che chiunque può fare di noi ciò che vuole perché tanto chiniamo la testa per timore o pigrizia, non è un buon modo per cambiare le cose.
In ogni caso, nel dubbio, abituatevi a salvare mail, messaggi e materiali vari che provino eventuali infrazioni nei vostri confronti. Potrebbero servirvi.
Coi contratti creativi in voga in questi anni, anche l’idea del sussidio di disoccupazione è diventata incerta, dal momento che sembra impossibile averne diritto. Io, per esempio, ero convinta di non averlo, e lo era anche l’impiegata dell’INPS che mi ha detto: “Proviamo, ma secondo me non c’è niente da fare”. Incoraggiante. Invece, a sorpresa, il sussidio è arrivato. Ho poi dovuto restituirne metà con la dichiarazione dei redditi, che è un po’ assurdo, ma devo dirlo: in quei tre mesi, nel suo piccolo, mi ha salvata. Le leggi cambiano continuamente, anche da un giorno all’altro. Rivolgetevi agli esperti, anche se il cugino di uno zio vi ha detto che… mal che vada, avrete perso il pomeriggio. Ma tanto siete disoccupate, no?
Proprio perché sono orgogliosa, i problemi di lavoro mi causano il terribile problema secondario di dover chiedere aiuto ai miei. Un po’ di gente si diverte a dire che i trentenni di oggi sono “furbi” e “mammoni” perché dipendono dai genitori, ma lasciatemi dire una cosa: a (quasi) nessun trentenne piace davvero dipendere dai genitori. È tarpante, umiliante, e ci fa sentire uno schifo. Le circostanze, però, sono quelle che sono, e a volte tocca di chiedere aiuto. La cosa più importante che possiamo imparare, in questi casi, è a fare un respiro profondo e ripeterci: non c’è niente di male, è la mia famiglia e mi sta dando una mano, presto mi rimetterò in carreggiata e saranno orgogliosi di me, ma adesso ho bisogno del loro aiuto. Farci schiacciare dalla colpa è inutile, anche perché, in media, un genitore preferisce aiutarci che non scoprire che ci stiamo nutrendo del ghiaccio incrostato nel freezer.
Non fermatevi, mai. Quando un contratto finisce c’è la tentazione di lasciarsi andare per un po’, di raccontarci che ci stiamo riposando e presto ci rimetteremo in moto, ma non è così. Il momento di cedere arriverà, è fisiologico, ma non può essere subito, o rischia di essere definitivo. Fate cinque versioni diverse del vostro CV, inviate candidature spontanee a chiunque, a prescindere dagli annunci, perdete anche tutto il giorno a scrivere lettere di presentazione, aggiornate il profilo di LinkedIn o fatene uno nuovo. Altrettanto importante, però, è anche fare esperienze. Iscrivetevi ai corsi gratuiti, studiate una lingua su internet, praticate i vostri hobby creativi e condivideteli sui social, fate volontariato. Non è retorica, ma una strategia pratica: visto che il tempo non si ferma, tanto vale usarlo per apprendere nuove abilità. Chissà che una di essere non si riveli determinante in futuro.
Quando si è depressi, si tende a spendere soldi per consolarsi. Siccome il cervello umano è un troll, questo è vero soprattutto quando non si ha uno stipendio. L’unico modo per resistere è fare un piano molto rigido e attenervi ad esso, magari incaricando qualcuno di cui vi fidate di sgridarvi all’occorrenza. Ricordate una cosa che io mi dimentico spesso, e cioè che ci sono un sacco di cose da fare gratis. Anche se la tentazione di languire sul divano piangendosi addosso è alta, ci saranno pur esposizioni, presentazioni di libri, boschi, parchi, monumenti, feste popolari – insomma, ci sarà pur qualcosa da fare senza spendere soldi. Trovatelo e fatelo.
C’è poco da dire, non passate le vostre giornate sui social. A meno che non vogliate soccombere sotto la certezza (ingannevole) che la vita degli altri sia felice e piena di amore e di soddisfazioni, mentre solo la vostra somiglia a un perpetuo 2007 di Britney Spears. In quel caso, fate pure. Tenete presente che nei momenti di crisi tendiamo a risultare particolarmente lamentosi e patetici sui social, e se il vostro profilo di Facebook è reale (cioè associato al vostro vero nome), questa non è una mossa vincente. Lo sapete che la maggior parte dei datori di lavoro cercano i profili online dei candidati?
Forse sbagliamo qualcosa. Forse è vero che non ci poniamo in modo giusto, forse è vero che non siamo brave in quello che facciamo, forse è vero che non siamo coraggiose, non riusciamo ad adattarci e non riusciamo a imporci. Può essere che pure noi sbagliamo, sì, e ignorarlo perché è più facile raccontarci che il mondo è cattivo non serve a niente se non a illuderci. Detto questo, esiste anche l’enorme probabilità che davvero non sia colpa nostra. Che avere intorno ai trent’anni, in Italia, in questo momento, sia dannatamente difficile. Non deve essere una scusa per arrenderci. Ma può essere qualcosa da tenere a mente quando, nonostante tutti i tentativi suggeriti fino a ora, ci sentiamo male e pensiamo di non farcela. Non so se siamo tutte sulla stessa barca, ma di sicuro lottiamo tutte contro un vento parecchio ostile. Se certe sere vogliamo solo frignare, mangiare all’All You Can Eat anche se non possiamo permettercelo, invidiare le compagne delle medie che hanno avuto più successo di noi e arenarci sul divano con portatile davanti a Friends, va bene così. Compiangersi è umano. Compiangersi e capire quando smettere di farlo, invece, è divino.
Source: freedamedia.it
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