Non so quante volte, soprattutto negli ultimi mesi, mi è capitato di pensare, e poi dire, che un certo comportamento era sessista, e di sentirmi rispondere “certo, tanto ormai quello è l’asso nella manica che tirate sempre fuori. Appena non vi va bene qualcosa è perché è sessista. Ma siete voi stesse ad autodiscriminarvi continuando a fare così”. Sì, succede davvero. E succede spesso. Ed è una questione molto complessa, che non può essere risolta puntando il dito contro questo o quello. Proprio perché è così complessa bisogna stare molto attenti quando diciamo che una certa cosa è sessista o misogina, per evitare di abusare di una categoria di cui abbiamo bisogno per farci capire.
Questo fenomeno, per quanto evidentemente ancora ben lontano dall’essere risolto, viene studiato ormai da parecchi anni e sotto molteplici punti di vista, prevalentemente sociologici e psicologici. Da qualche tempo esiste inoltre un sito, The everyday sexism project, che raccoglie le esperienze, anche in forma anonima, di tutte le donne che subiscono forme di sessismo o misoginia sul lavoro. Proprio a partire da questo portale nel 2014 sono state raccolte le dieci situazioni tipiche che una donna può trovarsi a vivere in ufficio: spesso, ad esempio, le donne vengono scambiate per la segretaria o per “quella che porta il caffè”, oppure, se prendono parola per proporre un’idea, vengono ascoltate meno degli uomini, se non addirittura ignorate. E che dire della fatidica frase “ma hai il ciclo oggi che sei così di cattivo umore?”
Di studi, appunto, ne esistono moltissimi, e cercano di essere il più oggettivi possibile. Ma ogni studio, come sappiamo, si basa su esperimenti o analisi di situazioni reali, e può accadere che alcune situazioni che sarebbero perfette per uno studio si verifichino in modo casuale. Ed è esattamente quello che è successo a Martin Schneider e Nicole Hallberg, la cui storia, tramite una serie di tweet di Martin, è diventata virale. E a seguito di questa vitalità anche Nicole ha deciso di raccontarla dal suo punto di vista, su Medium.
Sono migliori amici, come racconta Nicole, e si sono conosciuti perché lavoravano entrambi per la stessa, piccola, agenzia interinale. Il loro lavoro era riscrivere i curriculum dei clienti. Martin era molto bravo e stimato dal capo, Nicole un po’ meno.
La ragione era la velocità: Nicole veniva considerata molto più lenta di Martin e Martin pensava che fosse semplicemente perché lui aveva più esperienza di lei. Si sbagliava, e se ne rese conto quando un cliente iniziò a rispondergli in modo maleducato e scostante a una mail, una di quelle mail standard, che aveva già usato molte volte per comunicare con i clienti e che non gli avevano mai creato discussioni o tensioni.
Per errore infatti Martin aveva utilizzato l’account mail di Nicole, e non appena spiegò al cliente l’errore, quello cambiò improvvisamente tono e gli rispose in modo cortese e disponibile. Capì subito che il problema era che lui era un uomo e Nicole una donna. Così, insieme, decisero di fare un esperimento e di scambiarsi l’identità lavorativa per due settimane.
Il lavoro che svolgevano era esattamente lo stesso, l’unica differenza era, di nuovo, la firma: Nicole si firmava con il nome di Martin e Martin con quello di Nicole. Risultato: Nicole ha avuto due settimane super soddisfacenti, come mai ne aveva avute prima, mentre Martin ha avuto due settimane da schifo. “Mi sembrava di stare all’inferno. Tutto quello che chiedevo o suggerivo veniva criticato. Clienti che normalmente gestivo con grande facilità mi trattavano con superiorità”, racconta Martin nei suoi tweet, e prosegue dicendo che invece “Nicole ebbe le settimane più produttive della sua carriera, perché non doveva più perdere tempo a guadagnarsi il rispetto dei clienti”.
In uno scambio con una sua lettrice, avvenuto su Twitter, Martin osserva anche che la discriminazione nei confronti delle donne può peggiorare ancora di più nel caso di nomi femminili che hanno anche una chiara connotazione culturale o religiosa – nomi ad esempio palesemente arabi o cinesi – perché in questi casi alla discriminazione sessuale si aggiunge anche quella razziale.
Ma la storia di Martin e Nicole non finisce qui. Arrivati al termine dell’esperimento infatti, insieme, decisero di andare dal loro capo per dirgli cosa avevano scoperto. Martin in particolare gli spiegò che la causa della lentezza di Nicole non era né l’inesperienza né l’inefficienza, ma il fatto che, in quanto donna, veniva considerata meno dai clienti. Ma il capo non si interessò minimamente al problema, e anzi ne negò l’esistenza.
Scrive anche:
Non ho mai capito cosa ci guadagnasse lui nel negare l’esistenza del sessismo, nonostante tutte le prove che gli abbiamo messo sotto al naso, nonostante glielo stessero dicendo proprio quegli stessi impiegati che gli permettevano di guadagnare, nonostante glielo stesse dicendo un uomo del suo staff [e non solo una donna ndr]. Non lo scoprirò mai, perché mi sono licenziata e ho iniziato a lavorare in proprio, come blogger e scrittrice. In un ufficio fatto da una sola persona posso finalmente abbassare la guardia.
Source: freedamedia.it
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