Non mi sono mai laureata. Mi sono anche diplomata molto tardi, se è per questo. Potrebbe sembrare una presa di posizione contro l’istituzione, ma non lo è. È vero il contrario, invece, cioè che rispetto l’istituzione abbastanza da pensare che non vada presa alla leggera. L’impegno universitario è costante e a volte massacrante, non ho altro che rispetto per chi sceglie consapevolmente di assumerselo. Io non ho voluto farlo, e il motivo è semplice: studiare non faceva per me.
Me ne sono accorta presto, durante la scuola medie. Avevo un buon rapporto con i miei compagni e con alcuni professori, eccellevo nelle materie che amavo e fallivo in quelle che odiavo – come tutti, insomma. Non ero una buona studentessa: mi distraevo, dimenticavo il materiale, non studiavo e mi affidavo totalmente alla memoria, che poteva essere da 2 come da 9, a seconda di quanto mi interessava l’argomento. In pratica, il soggetto ideale per la manfrina “è intelligente, ma non si applica”.
Espressi la volontà di lasciare la scuola in seconda media, prima ai miei genitori, poi ai professori coi quali ero più in confidenza. Non stavo facendo i capricci, ero lucida, e assolutamente seria. Gli adulti intorno a me ebbero la sensibilità di capirlo e l’intelligenza di parlarmi da pari, anche se non lo eravamo (a 12 anni, in linea di massima, tu hai torto e gli adulti ragione, c’è poco da fare). Mi dissero che al liceo sarebbe stato diverso e io volli crederci. Non fu diverso.
Tentai un anno, ma niente. Tentai un altro anno, a un indirizzo diverso, ma ancora niente. Alla fine presi i miei genitori e feci loro un discorso che io non ricordo, ma che loro giurano sia stato all’incirca così: “Mamma, papà, io voglio fare la scrittrice. Se proprio ci tenete posso diplomarmi e laurearmi per farvi felici, ma io non ne sento il bisogno, anzi, mi renderebbe infelice. Vedete voi”.
Altri genitori mi avrebbero fatta volare dalla finestra con un doppio calcio rotante, i miei no. Mio padre, una persona estremamente pratica, mi disse: “Va bene, ma vai a lavorare”. Invece mia madre, che riponeva in me tutte le sue speranze, pianse per giorni, fermandosi giusto ogni tanto per insultarmi, ma non si impose. “Avevo scelta?” mi ha chiesto giusto qualche giorno fa, mentre ne parlavamo. Sì, ce l’aveva. Poteva costringermi, come ho visto fare a decine di madri di decine di mie amiche. Ma lei non ci ha neanche pensato. Ha fatto qualcosa di cui la ringrazio sempre, invece: ha accettato la mia scelta, e ha lasciato che me ne accollassi le conseguenze.
Mio padre è stato fedele alla sua condizione iniziale, ha preteso che cominciassi da subito a cercare un lavoro. Cos’altro avrei dovuto fare, temporeggiare in un appartamento a New York scrivendo racconti d’essay in attesa che un editore mi notasse, come Hanna di Girls? In un’altra vita, forse. Più o meno in quest’ordine, ho fatto: la centralinista, l’impiegata, la commessa, di nuovo la centralinista, l’operaia, la guardarobista, di nuovo l’impiegata, di nuovo la commessa. Volevo scrivere? Benissimo: una giornata ha 24 ore, di cui solo 8 si passano lavorando. Se la mia intenzione di scrivere era seria, avrei scritto. Altrimenti, avrei trovato scuse. Semplice, no?
Non vi dirò che è andato tutto liscio. È andato tutto l’esatto contrario di liscio, ma con le scelte funziona così: se te ne prendi i frutti, te ne prendi anche le rogne.
Non proseguire gli studi me ne ha portate un sacco, di rogne. Ma mi ha dato anche un frutto importante, cioè aver imparato questa lezione prima della maggior parte dei miei coetanei.
Qualche anno fa ho preso il diploma. Ancora una volta, per scelta, non per pentimento. Ho continuato a non volermi laureare, però, con buona pace della mia professoressa di filosofia, che ripeteva: “È inconcepibile”. Insistette tanto che un giorno le dissi: “Mi dispiace”. E lei mi rispose una cosa che mi ricordo benissimo: “Non dispiacerti. Se la scuola perde un elemento come te, è un fallimento della scuola, non tuo”. Quella frase ha esorcizzato anni di paranoie (credete che non mi sia mai sentita una povera cretina ignorante?), ma lei sembrava così triste che intristì anche me.
Per la mia generazione l’università è diventata un obbligo, una cosa che ti abituano a pensare che si debba fare. Dopo troverai lavoro, ti dicono. Dopo sarai felice, ti dicono. Ma nessuno ti può garantire queste cose, e chi lo fa è un bugiardo.
In Italia nel 2016 il numero delle immatricolazioni è cresciuto (+1,6%), ma il 38,7% degli studenti ha abbandonato i corsi. I trentenni italiani laureati sono solo il 23,4%, contro la media europea è del 37,9%. Non so spiegare perché questo succeda, non ho i mezzi per farlo, persone ben più preparate di me ci provano tutti i giorni e non potrei mai avere l’arroganza di sostituirmi a loro. Posso portare la mia esperienza, però, e dire una cosa banalissima: la scuola non mi dava stimoli, né le capacità pratiche che io mi sentivo portata per acquisire, quindi la sentivo come un peso.
Il mio percorso ha dato i suoi frutti? Sì.
Lo consiglio? No. Ma nemmeno lo sconsiglio.
Se posso consigliare qualcosa, per quello che vale, è solo questo: trovatevi il vostro percorso, e seguitelo. Che comprenda o non comprenda l’università. Se studiate, non permettete a nessuno di dirvi che quello che studiate non vale niente. Se non studiate, non permettete a nessuno di dirvi che non valete niente perché non avete studiato.
Forse un giorno la scuola cambierà e riuscirà a riaccoglierci tutti. O forse scopriremo che la scuola va benissimo così com’è, e che semplicemente non fa per tutti. Io, per quello che vale, sono abbastanza orgogliosa di me. Anche se mia madre, ancora adesso, ogni tanto mi ricorda che sognava una figlia avvocato, e poi ride.
Source: freedamedia.it