Lo hanno soprannominato veramente ET a causa degli occhi giganti, ma in realtà questa nuova e affascinante specie di squalo vive sulla Terra ed è stata ribattezzata Squalus Clarkae, dal nome della pioniera della biologia marina Eugenie Clark. In precedenza si pensava facesse parte della famiglia dello Squalus mitsukurii del Giappone, ma il test del DNA ha dimostrato essere una nuova specie.
Un esemplare vive proprio nel mare nel Golfo del Messico. Ma non si esclude che possano esserci altri esemplari altrove. Quello che è certo è che non è una specie già nota.
“Gli squali di acque profonde sono tutti modellati da pressioni evolutive simili, quindi finiscono per somigliare molto – ha spiegato a questo proposito Toby Daly-Engel, coautore del lavoro – Quindi ci affidiamo al DNA per sapere per quanto tempo una specie è stata “evolutivamente sola” e quanto sia diversa ora”.
Il curioso squalo è lungo circa 80 centimetri, quindi anche meno dei suoi simili (in media 3-5 metri, ma in alcuni casi lunghi anche 7) e vive nelle acque profonde al largo del Golfo del Messico. Quindi, per ora, nessun allarme per noi, mentre invece qualche allarme c’è per lui a causa nostra. Gli studiosi hanno infatti dimostrato che la sua presenza è già stata negativamente influenzata dalla pesca.
“Questo tipo di ricerca è essenziale per la conservazione e la gestione degli squali, che attualmente affrontano una moltitudine di minacce, dalla pesca eccessiva e catture accidentali, al commercio globale delle pinne – ha aggiunto infatti Pfleger, altro coautore – Molte attività di pesca in tutto il mondo stanno iniziando ad operare in acque sempre più profonde e, sfortunatamente, si sa molto meno delle creature che vivono nelle profondità”.
Insomma vogliamo arrivare anche lì. Stiamo svuotando gli oceani e quindi andiamo negli abissi. Senza sapere nemmeno cosa c’è davvero, come vivono gli abitanti e di cosa hanno bisogno. Ricerche come questa quindi, oltre farci scoprire quanto è immensa la natura, possono essere molto utili nel definire le strategie di conservazione anche se, chiaramente, il tutto dovrebbe partire dall’astensione da certi comportamenti di per sé dannosi per l’ambiente.
Il primo studio è stato pubblicato su Marine Biodiversity e poi aggiornato con i nuovi dettagli su Biotaxa.
Source: greenme.it