Mamma, raccontami ancora una volta tutto quello che è successo quando sono nato. Papà, spiegami cosa hai provato, dimmi se hai avuto paura durante le ore precedenti alla mia nascita, descrivimi che sapore aveva la tua allegria… e se quando mi hai visto per la prima volta hai provato un’emozione simile a quella che avevi sognato.
Spiegami di nuovo tutto quello che è successo quando sono nato, anche se so questa storia a memoria, perché dicono che ricordare è vivere di nuovo ed evocare vuol dire condividere la felicità.
Tutti i bambini durante la loro infanzia provano il desiderio o la curiosità di conoscere nei dettagli il momento in cui sono giunti al mondo. A volte sono i genitori stessi o persino i nonni a dare forma a questo racconto nel quale viene quasi sempre tralasciata la parte ostetrica e, talvolta traumatica, del parto, per concentrarsi solo sulla sfera emozionale. Si delinea, così, un prologo vitale ornato da magici aneddoti e dettagli simbolici che attribuiranno al bambino un’origine significativa, un riferimento, un portale.
Queste storie tessute in seno ad un nucleo familiare ci definiscono anche come persone. Sapere “cosa è successo quando sono nato”, quali circostanze particolari si sono verificate e visualizzare per un momento i nostri genitori mentre ci scoprivano per la prima volta ci aiuta a situarci, a posizionare un’origine, il primo riferimento temporale nella linea della nostra vita. Perché se c’è una cosa che quasi nessuno di noi è riuscito ancora a fare, è ricordare questo momento, la propria nascita.
Platone diceva nei suoi testi che il semplice atto di nascere vuol dire iniziare a “dimenticare“. Secondo quanto ci spiegava il saggio ateniese, quando l’anima resta intrappolata nel corpo e nel suo mondo sensibile, gli uomini perdono un vasto e primigenio universo di saggezza. Siamo costretti, dunque, ad imparare di nuovo per “ricordare” quello che sapevamo già, quello che una volta è stato nostro.
La sua teoria della reminiscenza non è esente da interessanti sfumature, ancora di più se chi chiediamo, ad esempio, quali conoscenze o sapienze istintive, ataviche e primigenie possono avere i feti mentre abitano in quell’ambiente liquido, sereno e placido che è l’utero materno…
Prima di giungere al mondo, il feto sa già di essere umano. Il suo cervello, ancora immaturo, ospita l’universo degli istinti che palpita, che pompa con forza le cellule cerebrali e i geni nei quali si iscrive tutto quello che siamo, tutto quello di cui abbiamo bisogno. Questa condizione è tale che il feto, che non ha ancora visto il mondo esterno e che non ha mai avuto davanti a lui un viso, è comunque capace di identificare e rispondere ad un volto.
All’inizio di giugno di questo stesso anno, l’Università di Lancaster, in Inghilterra, ha pubblicato un interessante lavoro sulla rivista “Current Biology”. In esso si spiega che raggiunte le 34 settimane, i feti reagiscono in modo esclusivo alle ombre dalla forma di viso umano. I ricercatori hanno proiettato sul ventre materno un volto umano stilizzato scoprendo che il feto girava la testa solo per seguire immagini aventi tale forma. Gli altri stimoli, le altre forme, non suscitavano alcun interesse.
Questi esperimenti hanno dimostrato due dati semplicemente meravigliosi. Il primo è che i feti tra le 33 e le 34 settimane sono già capaci di processare informazioni sensoriali e di distinguerle; il secondo, ancora più affascinante, è che siamo “programmati” per entrare in connessione con la nostra specie.
Non è necessaria l’esperienza post-natale per sapere, ad esempio, quale aspetto avrà mamma o papà. Il neonato non ne conoscerà i lineamenti, chiaro, ma “riconoscerà” o “ricorderà” (come direbbe Platone) l’aspetto, la forma e le proporzioni della sua specie.
Quello che ricordiamo del momento in cui siamo giunti a questo mondo è il nulla. È un mare perso nel bosco del tempo, è un tunnel che si dirada nelle scarse circonvoluzioni di un cervello che non ha ancora formato una corteccia prefrontale matura. Allo stesso modo, il ricordo è vago, per non dire inesistente, perché il cervello del neonato dispone di un ippocampo scarsamente funzionale; questa struttura, che determina quali informazioni sensoriali trasferire alla “memoria a lungo termine” non è ancora attiva, e non lo sarà fino ai tre anni, quando il piccolo inizia a consolidare ricordi significativi.
Tuttavia, gli psicologi hanno scoperto che i bambini dai tre ai sei mesi conservano per diverso tempo alcuni ricordi: evocazioni implicite o inconsapevoli che vengono immagazzinate nel cervello e che permettono ai piccoli, ad esempio, di associare sentimenti di qualità e sicurezza con la voce materna. Sono impronte associate all’istinto, al rumore latente del cervello che ci stimola, che ci spinge ad entrare in contatto con i nostri simili, con quanto ci risulta vitale.
Per concludere, possiamo affermare che nessuno ricorda la propria nascita, che ignoriamo le emozioni e i pensieri che ci hanno assaliti quando, all’improvviso, siamo entrati in contatto con il mondo esterno pieno di forme, colori e suoni violenti. Forse ci è sembrato minaccioso, forse abbiamo provato paura. È persino possibile che quella paura sia subito sparita, proprio quando ci hanno adagiato su quel rifugio perfetto che è la pelle di una madre.
E proprio perché non abbiamo un ricordo che segni la nostra origine, il nostro prologo esistenziale, ci farà sempre piacere ascoltarne il racconto da parte della nostra famiglia; quella storia adornata da dettagli e magia che ogni padre, ogni madre tramanda ai propri figli…
Source: lamenteemeravigliosa.it
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