Lo scorso novembre, Lena Dunham, scrittrice, sceneggiatrice, attrice e regista americana di 31 anni, famosa soprattutto per la serie televisiva Girls, ha deciso di sottoporsi a un’isterectomia totale, un intervento chirurgico che consiste nell’asportazione dell’utero, per porre fine agli atroci dolori causati da anni di endometriosi. A raccontare quanto può essere dilaniante, complicato e impossibile, prendere una decisione del genere per una donna che desidera avere dei figli, è stata la stessa Lena Dunham, in un articolo delicato e al tempo stesso struggente, che è stato pubblicato da Vogue Usa il 14 febbraio.
La maggior parte dei miei amici, ora, aspetta un figlio o comunque lo sta cercando. Pensavo che l’avrei presa male, che sarebbe stata dura, che avrei bevuto troppo ai loro baby shower, che sarei stata la triste e vecchia zia Lena. E invece sono felice per ognuno di loro. Non vedo l’ora di conoscere i loro figli (e di prendere in giro i tipici nomi dei bambini di Hollywood, cosa che avrei fatto anche se fossi stata fertile, quindi va bene). Le ecografie e le bacheche di Instagram non mi spezzano più il cuore come invece facevano quando avevo ancora un utero che non funzionava. I bambini che avrei potuto avere invece mi spezzano ancora il cuore, e io cammino insieme a loro ogni giorno, nel traballante tragitto che sto percorrendo per ritrovare il mio centro. (…) L’adozione è una via che perseguirò con tutte le mie forze, ma resta il fatto che avrei voluto provare quella sensazione, avrei voluto sapere cosa significano nove mesi di totale simbiosi con qualcuno. Sono stata fatta per quel lavoro, ma non ho passato il colloquio. E va bene così. Va davvero bene così. Forse potrei non crederci adesso, ma presto lo farò. E tutto quello che resterà sarà la mia storia e le mie cicatrici, che iniziano già a scomparire.
Nei giorni che hanno seguito la pubblicazione dell’articolo di Lena Dunham, i giornali, soprattutto quelli italiani, hanno ripreso la notizia (che poi non era una notizia, ma un tentativo di mettersi a nudo su un tema delicato, per fare sentire meno sole/soli quelli che ci stanno passando) criticando in modo invasivo una scelta difficile. In sintesi, uno dei pareri più diffusi in quei giorni è stato quello secondo cui Lena Dunham avrebbe rinunciato alla “massima espressione della vita femminile”. Prima di soffermarci un attimo sull’identificazione tra utero e vita femminile, è importante fare una premessa. Negli ultimi anni si è iniziato a parlare sempre di più delle donne (e degli uomini) che decidono di non avere figli – si è entrati a gamba tesa nel merito di una decisione che è stata a lungo ritenuta egoistica, e che oggi invece inizia lentamente ad essere rispettata per quello che è: una scelta assolutamente personale. Si parla ancora invece pochissimo delle persone che vorrebbero avere dei figli, ma che, per varie ragioni, invece non possono.
L’infertilità viene ancora trattata come una specie di misterioso male incurabile che è meglio non nominare: non parlandone è possibile fingere che il problema non esista, evitando il pensiero che possa accadere proprio a noi. Ma questo silenzio, che ha radici complesse, non fa bene a nessuno, soprattutto a chi soffre di sterilità, che finisce col vivere nell’ombra, col sentirsi incompreso e spesso “mal funzionante”.
Dando un’occhiata ai sondaggi che esistono sul tema, o anche solo facendo una chiacchierata con le amiche, si scopre che quasi tutte le donne che vogliono avere dei figli hanno il timore di poter essere sterili. Non è un pensiero qualunque, ma è un dubbio silenzioso che si insinua nella mente alle volte anche molto presto, e che diventa concreto quando, magari dopo un paio di tentativi mirati, non arriva la gravidanza desiderata. Per scongiurare questa paura irrazionale può essere utile, tanto per iniziare, partire dalla definizione del termine, perché non basta qualche tentativo sporadico non andato a buon fine per potersi definire sterili. Anzi, si parla di infertilità, quando l’assenza di un concepimento cercato si estende per almeno 12 mesi. È solo dopo questo arco di tempo che, secondo i medici, è consigliabile iniziare a fare dei test per capire cosa sta succedendo e perché.
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il 15% delle coppie italiane è affetto da problemi di infertilità. All’incirca nel 30% dei casi i problemi sono dovuti all’uomo, nell’altro 30% alla donna, nel 20% sono considerati “misti”, cioè problemi condivisi da entrambi i membri della coppia, e un restante 20% è invece inspiegabile (per il momento). Ragionare su questi dati è importante perché spesso, all’interno di una coppia, appena ci sono problemi in questo senso le donne tendono a colpevolizzarsi e a pensare che il problema sia loro, escludendo a priori la possibilità che sia invece maschile.
I problemi che causano l’infertilità sono vari. Nel caso degli uomini possono essere alterazioni in ambito testicolare, ostruzione dei condotti, patologie della prostata, alterazioni nell’eiaculazione o dell’erezione e alterazioni del seme. Nel caso della donna: menopausa precoce, endometriosi, ostruzioni o lesioni delle tube di falloppio, anomalie uterine e cervicali o problemi ovulatori. Anche di queste patologie è importante parlare, perché farlo significa divulgare informazioni che possono aiutare i soggetti coinvolti a diagnosticarle prima e quindi anche a lavorare prima per cercare delle possibili soluzioni. Una di queste, ad esempio, può essere la gestazione per altri, perché non è detto che una donna che ha problemi all’utero (e che quindi non può portare avanti una gravidanza perché la sede in cui dovrebbe farlo è inadeguata) abbia delle ovaie che non producono ovuli. Esistono inoltre diverse terapie ormonali o la fecondazione in vitro. Sono comunque tutte terapie che hanno un forte impatto sul piano psicologico e anche per questo normalizzare il dialogo sul tema è fondamentale, perché aiuta chi decide di sottoporsi alle cure a parlarne liberamente, a cercare supporto e appoggio. Infine esiste ovviamente il percorso dell’adozione, che per essere accolto con maggiore serenità richiederebbe una separazione netta tra genitorialità e biologia. Per qualcuno può sembrare banale, ma è importante ribadire che essere madre o padre non ha necessariamente a che vedere con il fatto di aver messo al mondo qualcuno.
Se le donne si preoccupano più degli uomini di poter essere sterili, non è solo perché sono loro a vivere quell’esperienza intensa di nove mesi che è la gestazione, ma è anche perché è luogo comune pensare che sia proprio questa esperienza a definire la vita di una donna. Paghiamo cioè ancora la scotto di una mentalità comune che per secoli ha relegato la donna unicamente al ruolo di madre e angelo del focolare, e il risultato è che “una donna senza figli è incompleta”. Si tratta dello stesso parere (non richiesto) che di solito viene sbattuto in faccia alle donne che decidono di non avere figli; provate un po’ a pensare quanto può far male rivolto invece a chi i figli li vorrebbe.
Questa particolare situazione ci aiuta anche a riflettere, in un modo un po’ diverso da quello standard, sull’identificazione tra dato biologico e vita femminile. È un tema che la storia di Lena Dunham rilancia in tutta la sua complessità: rinunciare a un utero mal funzionante ha significato per lei sentirsi dire da una parte che è sbagliata perché ha rinunciato alla massima espressione della vita femminile e dall’altra che è sbagliata perché ha sofferto per farsi togliere un organo che non ha nulla a che vedere con ciò che lei è. Che il nostro apparato riproduttivo non determini chi siamo, è vero fintanto che questo dato biologico non si rivela importante per noi. Certo che una donna non è il suo utero, ma se una donna in particolare si sente determinata dal suo utero, il fatto che non averlo più o non averlo funzionante, sia vissuto come un problema deve essere rispettato.
Quando si affronta il tema dell’infertilità, nella maggior parte dei casi, lo si fa a partire dalle frasi che andrebbero dette e non dette a chi ne soffre. Ma è davvero utile? No, non lo è, anzi. Adottare un linguaggio mirato e artificioso con chi ha un problema, contribuisce solo a peggiorare la situazione, a creare distanza e imbarazzo nel dialogo. Già è difficile processare da soli l’impossibilità di soddisfare un desiderio così grande, figuriamoci se ci si mettono anche gli altri a complicare le cose. All’elenco di cose giuste da dire, basterebbe sostituire l’empatia, eliminare i consigli non richiesti, e, soprattutto ascoltare. L’ascolto è (quasi) sempre la chiave di tutto. Partiamo da qui.
Source: freedamedia.it
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