Dai pastai pugliesi, che grazie al biogas trasformano i grani antichi riutilizzando gli scarti, ai birrai toscani votati alla geotermia, cresce il numero di aziende del settore agricolo e agroalimentare che scelgono di “decarbonizzare” il ciclo produttivo. Il nuovo rapporto di Legambiente sui comuni rinnovabili, nel 2017 si è arricchito di questa nuova sezione, frutto di una ricerca che ha coinvolto tutto lo stivale alla scoperta di realtà produttive pronte a scommettere sulle energie pulite per tagliare i costi, chiudere la filiera e ridurre le emissioni di un settore che oggi vale oltre il 10% della CO2 totale prodotta dall’Unione Europea.
Un processo incoraggiante, inserito in un contesto di progressivo aumento della quota di fonti rinnovabili nel mix energetico degli ottomila comuni italiani: il dossier ne individua 3.021 capaci di produrre più elettricità di quanta ne consumino le famiglie residenti, quaranta dei quali hanno ormai detto addio ai combustibili fossili. In queste isole felici sbocciano le pratiche virtuose, con un comparto dell’agrifood dinamico e in espansione per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico sostenibile. Secondo l’Istat, circa 21mila aziende dell’agroalimentare hanno deciso di investire nelle rinnovabili per soddisfare il proprio fabbisogno elettrico e termico, per lo più nel campo dell’agroindustria multifunzionale. È il biogas a farla da padrone in campo agricolo, grazie anche alla possibilità di riutilizzare il digestato, sottoprodotto della digestione, come fertilizzante naturale.
L’Arte della semola
La società agricola Arte, 400 ettari fra Manfredonia e Cerignola, in provincia di Foggia, ha avviato un impianto nel 2010 da 625 kW elettrici e 700 kW termici, più che sufficiente per coprire il fabbisogno di tutto il processo produttivo. Il 90% dell’energia elettrica prodotta viene infatti ceduta alla rete, mentre la componente termica è assorbita dai digestori, scalda uffici e spazi del personale e viene utilizzata per l’essiccazione del digestato. L’impianto a biogas si alimenta con gli scarti agricoli, i sottoprodotti aziendali e il letame di alcune aziende partner.
«Produciamo pasta biologica da grano Senatore Cappelli, lavorata al bronzo ed essiccata lentamente a bassissime temperature – spiega Massimo Borrelli, presidente di Arte – La società è nata nel 2005 da tre persone sui terreni appartenuti proprio al senatore Raffaele Cappelli, che nel 1906 sperimentò in Capitanata questa varietà con l’aiuto dell’agronomo Nazareno Strampelli. Siamo partiti con un quintale di semi, oggi abbiamo una filiera che dà lavoro a cinquanta persone e condensa produzione e trasformazione in un raggio di appena 10 chilometri». Un esempio perfetto di economia circolare agricola, basata su un mix di tradizione e tecniche innovative di raccolta meccanizzata, che secondo Borrelli permettono di risparmiare fino al 90% di combustibile rispetto all’agricoltura convenzionale. Per ora la gran parte del fatturato è coperta dal mercato estero, ma l’alta ristorazione italiana sta guardando con interesse crescente ai prodotti di Arte, che ha aperto una sezione di e-commerce sul proprio sito web.
Dalla terra alla birra
Se abbattere i costi della bolletta è fondamentale per liberare risorse da reinvestire nello sviluppo aziendale e l’autoproduzione è la via maestra per rilanciare il settore primario, anche l’approvvigionamento da produttori di energia rinnovabile può diventare una strategia che paga. Lo dimostra la scelta fatta da Vapori di birra, birrificio artigianale in provincia di Pisa che sfrutta il vapore geotermico della vicina centrale Enel green power come fonte primaria nel processo brassicolo. Le caratteristiche del sottosuolo toscano, infatti, favoriscono questa sperimentazione unica al mondo.
«Ho lavorato nel settore della geotermia – spiega Edo Volpi, presidente della società – Poi, dalla passione per la birra è nata l’idea di avviare una produzione che sfruttasse l’energia del suolo invece dei combustibili fossili». È nata così una realtà che produce 60.000 litri l’anno e impiega sei persone. Ci è voluto un investimento di 66.000 euro, sostenuto a metà dal Consorzio per lo sviluppo delle aree geotermiche, nato da un accordo tra dodici Comuni ed Enel nel 2007 per promuovere questa fonte nelle piccole imprese. «Oggi utilizziamo vapore geotermico a 230 °C, che viene convertito da uno scambiatore e utilizzato per scaldare l’acqua a 135 °C, temperatura necessaria per il processo di ammostamento e bollitura». Risultato? Consumi ridotti del 30% e un altro primato mondiale del made in Italy.
Source: lanuovaecologia.it