Regolamentare il mercato dei call center e lavorare affinché le grandi aziende committenti dei servizi firmino una sorta di “codice di autoregolamentazione” per disincentivare la delocalizzazione ed evitare gare al massimo ribasso. Il Mise sta lavorando, come corollario alle norme approvate nella legge di bilancio 2017, all’approvazione di una sorta di “codice industriale” che si base su due capisaldi.
Il Governo secondo il segretario della Cgil Susanna Camusso “Potrebbe innanzitutto intervenire sul come si determinano le gare d’appalto: per anni si è lasciato correre al massimo ribasso come logica degli appalti – ha sottolineato – non certo una logica della qualità del servizio e dei diritti dei lavoratori”. Bisogna agire “su un’Europa che non può farsi concorrenza al suo interno perché la liberalizzazione senza delle salvaguardie per le condizioni delle persone porta esattamente a questi risultati”. Inoltre il piano cui sta lavorando il Governo “è solamente un atto volontario”, osserva ancora, “senza vincoli né paletti”.
Ridurre i costi per acquisire la commessa: é questa la parola d’ordine delle società di call center, che per schiacciare le spese tagliano il costo del lavoro o delocalizzano. Le aziende del settore sono circa 200 ma il 60% del giro d’affari é diviso tra 7 grandi imprese:
Nel complesso gli addetti sono circa 80 mila, la maggioranza dei quali assunti con contratti part time: 40 mila a tempo indeterminato e 40 mila con contratti di collaborazione.
Fino al 2016, il settore era considerato una ‘giunglà non regolamentata, ben descritta dal film di Paolo Virzì “Tutta la vita davanti”. Grazie all’intervento normativo del governo Prodi (ministro del Lavoro Cesare Damiano) vennero regolarizzati 26 mila dipendenti. La decontribuzione introdotta dalla legge di Stabilità ha consentito nel 2015 un ulteriore aumento delle stabilizzazioni dei rapporti di lavoro, così come in passato gli sgravi per il Mezzogiorno (la legge 407/90 e i contributi Fondo sociale europeo) avevano favorito l’apertura di call center nelle regioni meridionali: ‘avventuré terminate a volte con lo scadere dei benefici.
Il costo del personale rappresenta l’80% del conto economico: la competizione tra operatori può determinare un’involuzione delle condizioni di lavoro o la delocalizzazione dell’attività. Migliaia sono le postazioni fuori d’Italia, in grande maggioranza per i servizi cosiddetti ‘outbound’, cioé di vendita, telemarketing, ricerche di mercato, sondaggi etc.
Le attività delocalizzate rappresentano circa il 15% del totale del mercato italiano: il paese di preferenza é l’Albania (Tirana, Durazzo, Valona), seguito da Romania e Croazia (Pola). Solo in Albania nel 2015 é raddoppiato il numero di call center che lavorano per il mercato italiano con oltre 25 mila posti di lavoro. Il legislatore é intervenuto con una norma che disciplina le delocalizzazioni (art.24 del decreto Sviluppo 83/2012) ma non é mai stata applicata nei fatti. Il nodo irrisolto sono le gare al massimo ribasso, le rivisitazioni in calo delle tariffe d’appalto, i continui cambi di appalto.
Il problema, affermano i sindacati, non sta nella crisi della domanda: i servizi offerti dai call center non sono stati infatti ridotti dalle aziende committenti. é piuttosto la mancanza di un regolamento che imponga il rispetto del contratto nazionale di lavoro per evitare che le imprese più spregiudicate paghino meno il lavoro estromettendo dal mercato le imprese corrette o che scelgano la via dell’estero.
Source: agi.it/economia
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