L’anno in cui ho fatto la maturità il ciclo mestruale mi è saltato per circa tre mesi. Il secondo anno di Università, in piena sessione di esami (una di quelle in cui realizzi che le vacanze di Natale sono solo un’illusione), sono finita in ospedale con una gastrite che stava per uccidermi. Quando stavo scrivendo la tesi triennale, invece, mi si è infiammata una cisti a una gamba, che neanche sapevo di avere. Potrei andare avanti a elencarvi come in ogni momento importante – e quindi stressante – della mia vita il mio corpo mi abbia lanciato dei segnali di aiuto, che io ho prontamente fatto finta di non vedere, perché ero troppo impegnata ad alimentare il mio stress, peggiorando tutta la situazione. Comunque, io ci credo: credo che la nostra emotività influisca sulla nostra salute, che il corpo renda tangibile e palese ciò che da un punto di vista psicologico possiamo rimuovere e fare finta di non vedere.
Si chiama psicosomatica, attualmente è una branca della psicologia clinica che studia la connessione tra alcuni disturbi fisici (somatici, appunto) e lo stato psicologico del soggetto che li manifesta. Oggi ne parliamo in questi termini, ma il presupposto su cui si basa – nessun dualismo tra anima e corpo, ma l’uomo inteso come unità psicofisica – ha radici antichissime.
Negli ultimi anni, complici da una parte una serie di pratiche mediche alternative che si sono affermate, e dall’altra nuove ricerche svolte sul tema, la convinzione che tra corpo e stato emotivo ci sia una forte connessione, ha preso sempre più piede. Quante volte abbiamo sentito dire “è di probabile origine psicosomatica”? Io tante. Generalmente si usa per quelle patologie che sembrano non avere un’origine biologica individuabile: febbri strane, nausee, dolori, allergie. Tutte cose che sono spesso legate a disturbi infiammatori. Certo, gli scettici a riguardo sono molti e sostengono che dire “psicosomatico” in realtà voglia dire ammettere di non sapere quale sia la causa di una determinata malattia. Alcuni medici, invece, ritengono possibile che sintomi apparentemente immotivati siano caratteristici di patologie autoimmunitarie – anche queste ancora di difficile comprensione da un punto di vista scientifico – cioè quelle in cui è il nostro stesso organismo ad attaccarsi da solo, senza intromissioni di batteri o virus esterni. Anche in questo caso però la tentazione di chiedersi perché un organismo si faccia del male autonomamente, e di rispondere utilizzando spiegazioni psicologiche è forte. Comunque, non sono un medico: il mio compito non è quello di entrare nel merito specifico di una questione tanto complessa, ma di limitarmi a divulgare ed esporre alcuni risultati degli studi più recenti, che possano aiutarci ad avere le idee più chiare.
Partiamo subito col dire che, da un punto di vista medico e scientifico, i processi biologici attraverso cui i nostri stati emotivi influenzano il nostro corpo sono ancora parzialmente oscuri. Non sappiamo bene come avvenga questa influenza, ma stando ai dati siamo abbastanza sicuri che in alcuni casi si verifichi davvero. Sappiamo ad esempio che lo stress (prolungato, non quello che viviamo tutti quotidianamente) non fa bene alla nostra salute e che può facilitare – se non addirittura causare – infezioni, debolezze del sistema immunitario, osteoporosi o disturbi cronici come il diabete. Quindi dovremmo concludere che una vita emotivamente tranquilla, monotono, ci aiuti a essere più in forma? In realtà non proprio.
Un recente studio ha infatti dimostrato che avere una vita emozionale movimentata e provare ogni giorno una varietà di emozioni (tecnicamente emodiversità), fa bene alla nostra salute. In che modo? La presenza emozioni eterogenee nella nostra esperienza quotidiana sembra essere connessa alla presenza, nel nostro sangue, di un basso numero di biomarcatori infiammatori, che a loro volta riducono il rischio di infiammazioni sistemiche, ovvero malattie croniche. Ma cerchiamo di entrare più nel dettaglio.
Pubblicato di recente sulla rivista accademica Emotional, lo studio è stato condotto sotto la supervisione di Anthony Ong, docente di “sviluppo umano” per il College of Human Ecology, e di geriatria per il Weill Cornell Medicine. Per realizzarlo sono stati riuniti 175 volontari, di età compresa tra i 40 e i 60 anni, ed è stato chiesto loro di monitorare la propria emotività quotidianamente, scegliendo tra 16 emozioni positive e 16 emozioni negative, per un mese. All’inizio e alla fine del mese i volontari sono stati anche sottoposti a dei prelievi del sangue, analizzati sulla base dei biomarcatori di infiammazioni. Mettendo in relazione il loro diario emozionale con i risultati delle analisi del sangue Ong ha osservato che gli stati infiammatori sistemici sono meno frequenti nei soggetti che vivono una varietà di emozioni positive. Per dirla in altri termini: la diversità emotiva è più importante della felicità. Lo stesso risultato non è stato invece riscontrato in relazione alle emozioni negative, che sembrano essere sempre nocive, anche se variano.
Va detto tuttavia che lo studio in questione è stato svolto su un campione di soggetti troppo ristretto – non solo quantitvamente (175 persone), ma anche qualitativamente (solo di età compresa tra i 40 e i 60 anni) – per poter trarre conclusioni definitive. Inoltre qualche anno fa, nel 2014, un altro team di ricercatori si è dedicato a un’indagine simile, analizzando il comportamento emotivo di 37.000 partecipanti e concludendo che ciò che influisce sugli stati infiammatori non è la varietà delle emozioni positive ma è l’emodiversità trasversale, cioè la verietà emotiva in genere (anche negativa).
Arrivati a questo punto però sorge spontanea una domanda: perché provare emozioni diverse è così importante? Secondo Ong l’emodiversità è importante da un punto di vista evolutivo, perché ci aiuta a fronteggiare situazioni diverse. Le emozioni che proviamo determinano il nostro comportamento e le nostre priorità. Per poter sopravvivere è fondamentale che queste emozioni, e quindi comportamento e istinti, si modfichino a seconda dei contesti. Jordi Quoidbach, uno dei principali responsabili del secondo studio che ho citato, sembra essere in qualche modo d’accordo. Afferma infatti che l’emodiversità è la chiave della resilienza, cioè della nostra capacità di adattarci a ogni tipo di situazione, positiva o negativa che sia.
Insomma, se anche voi fate siete tra quelli che “un momento mi sento in un modo e quello dopo in un altro”, non preoccupatevi: pare sia tutta salute.
Source: freedamedia.it