Pensiamo alle gite scolastiche o ai primi viaggi all’estero con le amiche e in famiglia: è probabile che il suono che rimbomba nelle nostre teste sia Cheeeeeeeeeeeeese. Il rituale della fotografia – che oggi si consuma con il doppio della facilità di un tempo – era prima scandito da quella parola inglese, che i più simpatici traducevano con l’italiano formaggio, per rendersi ancora più simpatici (mai successo?). La parola cheese doveva aiutarci a distendere il viso e illuminarlo con un sorriso, laddove l’espressione serena non era proprio a portata di mano. Era il tempo in cui ci si concentrava per risultare al meglio in fotografia. E ora, anche se si sente pronunciare molto meno quel cheese prima di scattare le foto, si può dire che è rimasta l’abitudine a mostrarci sorridenti (sopravvissuta alla moda delle duck faces e dei visi imbronciati che popolano Instagram). Ma è sempre stato così? Ci si è sempre mostrati così sereni di fronte all’obiettivo?
No, in realtà, l’abitudine a sorridere in fotografia non esiste da sempre: agli albori dell’arte fotografica, sembra che il suggerimento fosse addirittura l’opposto, cioè stare seri il più possibile, dati i lunghi tempi di esposizione che richiedevano le macchine fotografiche del tempo. Quegli sguardi severi e le bocche serrate dunque permettevano un risultato migliore e conferivano un’aria severa e dignitosa. Nell’Ottocento, il sorriso era prerogativa dei bambini e degli ubriachi. E poi, chi poteva vantare una dentatura impeccabile? Ci vorranno alcuni anni e l’introduzione del signor George Eastman Kodak, delle fotocamere a un prezzo più contenuto, come la Pocket e la Brownie – una sorta di antenate delle nostre Kodak Fun – a far cambiare le cose: le pubblicità mostrano persone sorridenti che, in poco tempo e a un costo più abbordabile, possono permettersi di immortale i momenti importanti della loro vita. La Pocket viene venduta come la macchina fotografica che sta in tasca e la Brownie è ancora più facile da usare, promuovendo la filosofia di Kodak per cui “voi scattate ed al resto pensiamo noi”.
La fotografia diventa dunque un hobby per le classi agiate, che ora mostrano dentature perfette davanti all’obiettivo. C’è però un ulteriore riferimento in questa storia: secondo diverse fonti infatti, sembra che alla diffusione della parola cheese prima di scattare una fotografia, abbia contribuito anche il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, nel 1943, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Un periodo difficile, in cui il sorriso comunica una speranza per il futuro. Da quel momento, l’abitudine sembra essersi diffusa negli ambienti della politica e dello spettacolo, arrivando a contagiare un po’ tutti. Non si ride in maniera sguaiata ma neanche ci si impone un’espressione rigida e dura: il sorriso permette di mantenere un certo equilibrio tra l’eccessiva severità e l’esplosione di gioia. Secondo un’indagine sempre condotta negli Stati Uniti, le donne cominciano a sorridere in fotografia negli anni ’50 e gli uomini poco dopo. Ed ecco che dopo secoli di sorrisi placidi ed espressioni austere, abbiamo cominciato a mostrare i denti con il lieve sorriso della parola cheese.
Source: freedamedia.it
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