La mia prima chitarra si chiamava Alvaro, il motorino era Lafayette e la macchina ora porta i nome di Polina. Tre età diverse, tre oggetti che hanno fatto parte della mia quotidianità per anni, e che sono diventanti veri e propri punti di riferimento. Ebbene sì. Tanto da meritarsi un nome. A molti suonerà come una cosa sciocca o come un vezzo, ma – non so perché – a me è risultato abbastanza naturale coltivare l’abitudine di relazionarmi a questi oggetti come veri e propri esseri umani, facendoli rientrare nel ristretto gruppo di amici e confidenti. E nel tempo, ho scoperto che non è l’anticamera di un comportamento asociale, né di un disturbo della personalità, anzi: oltre agli esempi famosi – penso alla spada Excalibur di re Artù, la Durlindana di Orlando, la macchina di Nicholas Cage in Fuori in 60 secondi, chiamata Eleanor, e alla mitica chitarra Lucille di B.B. King – ho sentito diversi amici chiamare con un nome proprio un oggetto a cui si sentono legati. E infatti si scopre che è una tendenza molto comune, che è stata spiegata analizzando alcuni nostri comportamenti psicologici.
Lo psicologo Nicholas Epley, professore di Behavioral science alla University of Chicago Booth School of Business, ha studiato questo comportamento in diverse occasioni (come la sua ricerca del 2007 pubblicata su Psychological Review) arrivando a spiegarne le possibili origini nel suo libro Mindwise: How We Understand What Others Think, Believe, Feel, and Want:
Pensiamo che ci siano diverse ragioni perché questo accade. Alcune di queste hanno a che fare con la somiglianza che questi oggetti inanimati – o animali – hanno con gli esseri umani. Possono essere relativi al loro aspetto, o il modo in cui si comportano, o altre somiglianze che ci portano a trattare oggetti non umani, come se fossero tali.
Secondo Epley, le ragioni possono essere tre: innanzitutto, tendiamo ad antropomorfizzare quegli oggetti che ci sembrano avere delle sembianze umane – come i fanali della macchina che sembrano degli occhi – o che possiedono caratteristiche di movimento simili alle nostre. In secondo luogo, il fenomeno accade quando vogliamo dimostrare il nostro potere o attaccamento nei confronti dell’oggetto. Oppure in ultimo, quando non possiamo spiegare altrimenti la loro imprevedibilità.
La prima motivazione suona abbastanza comprensibile; vediamo spesso lineamenti umani anche in oggetti che non sono immediatamente riconoscibili come antropomorfi – come le finestre di un palazzo che sembrano degli occhi – per una capacità chiamata pareidolia); è facile pensare che il passo successivo possa essere quello di dar loro un nome. Ma dare un nome vuol dire anche manifestare un attaccamento all’oggetto, distinguendolo da quello di qualcun altro – e dichiarando il proprio dominio su di esso. Secondo David Peterson (il linguista che ha curato il linguaggio Dothraki e Valyrian della serie Games Of Thrones) le persone davano il nome alle navi nel porto per distinguere la propria dalle altre, diventando poi una vera e propria abitudine. Ma non è un caso che succeda con un oggetto di tale importanza e non con quelli di uso più comune:
Quando si parla di oggetti personali, c’è però una differenza nel livello d’importanza che diamo loro e nel livello di attaccamento emotivo che ci possono suscitare.
Secondo Peterson, è facile che non daremo un nome agli oggetti che usiamo maggiormente – come lo spazzolino – ma probabilmente a quelli che nominiamo in pubblico più spesso. Se dunque non abbiamo trovato ancora un nome alla doccia o alla nostra spazzola, è del tutto comprensibile. Per quanto riguarda invece l’imprevedibilità, questa è forse la motivazione meno immediata cui pensare, ma che in realtà spiega bene alcuni comportamenti. Vi è mai capitato di parlare dolcemente alla vostra automobile che d’improvviso, una mattina, decide di non collaborare e rimane ferma – apparentemente senza un perché – nonostante tutti i tentativi di accensione? Oppure di trovarsi a fare monologhi alla piantina che nonostante gli sforzi e le cure, dà solo segni di una morte imminente, tirandoci fuori le migliori parole d’incoraggiamento? Ecco, se è successo niente paura: questi sono esempi di quanto associamo i comportamenti imprevedibili all’essere umano, e dunque, sembra naturale pensare che tutto ciò che risponde in maniera scostante alle nostre aspettative, custodisca in realtà un carattere e una personalità.
Source: freedamedia.it
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