Bill Gates, provocatore dal tratto gentile e dal giudizio affilato, propone una tassa sul lavoro dei robot. L’equazione è semplice: se in una fabbrica s’installano linee di produzione automatizzate si sostituisce il lavoro degli operai con il lavoro delle macchine ma pur sempre di lavoro si tratta. E il lavoro si paga, e si tassa.
La proposta del fondatore di Microsoft ha almeno due grandi pregi:
In base ai dati pubblicati nel 2016 dall’OCDE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) la media del carico fiscale sul lavoro nei 34 Paesi più sviluppati del mondo è del 36%. Il 13,2% come imposta personale sui redditi, l’8,3% come contributo del dipendente per la sua previdenza e il 14,5% come contributo previdenziale pagato dal datore di lavoro allo Stato. Tutti i 20 paesi che sono sopra la media sono europei. L’Italia è sesta con il 47,8% complessivo, di cui il 16,3% di tassa sul reddito del dipendente, il 7,2% di contributo previdenziale a carico del lavoratore e il 24,3% a carico del datore di lavoro. Ogni 100 euro dati al lavoratore umano altrettanti si pagano per previdenza e servizi collettivi pubblici.
Un robot non percepisce redditi e pensione (almeno per il momento) e dunque il suo contributo dovrebbe essere integrativo e destinato a solidarietà generale. Come da noi si usa da sempre con il contributo obbligatorio del 2% a carico del cliente dei liberi professionisti iscritti agli albi professionali. Contributo qualche anno fa aumentato, senza troppo rumore mediatico, da diversi enti previdenziali.
Un robot, in media, si ripaga in 5-6 anni, ha una produttività e una resa qualitativa molto più alta del lavoro umano che tende a sostituire, costi di gestione e manutenzione più alti. Una tassa una-tantum del 5% da pagare al momento dell’acquisto, per quanto indigesta a chi sceglie di investire, appare quindi sostenibile con relativa facilità, o quantomeno non tale da fermare la decisione sull’investimento. Superata la fase iniziale di stupore è ragionevole attendersi che, proprio come capitato con l’innalzamento del contributo obbligatorio alle casse dei liberi professionisti, l’innovatore non si fermerà davanti alla nuova tassa: pagherà e guarderà avanti. L’ipotesi di Bill Gates, se accolta, non rallenterà l’innovazione industriale. E i posti sostituibili non saranno salvaguardati.
In compenso il gettito di questa tassa potrebbe essere utilizzato per riconvertire i lavoratori in mobilità e per sostenere processi di prepensionamento. Secondo i dati di Confindustria, l’industria italiana dell’automazione manifatturiera e di processo ha un mercato interno di circa 4,3 miliardi di euro. Un contributo aggiuntivo nelle casse dello Stato del 5% si tradurrebbe quindi in un incremento di gettito di circa 215 milioni di euro. Si potrebbe metterli in un fondo che agevoli le imprese che intendono utilizzare i lavoratori sostituiti dai robot (ad esempio facendo metà per uno del costo orario) o delle pubbliche amministrazioni che impieghino le persone per lavori di pubblica utilità. Al costo medio di 30 euro per ora di lavoro che si registra in Italia, significa dare lavoro a un numero variabile tra le 4.000 e le 7.000 persone all’anno. Una goccia nel mare. Specie se si considera che l’automazione non riguarda solo il manufacturing ma anche i servizi (dalla distribuzione dei carburanti alla ristorazione), i trasporti (veicoli a guida automatica, come già oggi nella metropolitana di Torino) la sicurezza, la medicina, l’edilizia, gli uffici, l’agricoltura e l’allevamento. Tutti ambiti in cui i robot sostituiranno in parte l’uomo.
Anche tassando tutto e tutti l’effetto sarebbe, alla fine, trascurabile. Senza contare la proverbiale inefficienza della macchina pubblica italiana, che finirebbe per assorbire la nuova tassa sui robot per pagare le proprie spese correnti. Molto meglio sarebbe chiudere le migliaia di progetti di innovazione pubblica inutili o obsoleti.
L’idea di Bill Gates, vale la pena di ripeterlo, è una straordinaria provocazione, utile a discutere di un problema vero, di una ferita che rischia di infettarsi se non curata. Semplifica il problema e spinge verso il futuro. Il dibattito va incardinato anche su altro. Le trasformazioni tecnologiche in tutta la storia dell’uomo e non solo quelle dell’era digitale (nel passaggio dal cavallo alla macchina, dai buoi al trattore, dal telaio manuale alla produzione in serie, dal telegrafo allo smartphone) hanno un valore economico e un effetto positivo sull’economia ma anche, se non soprattutto, un valore sociale. Cambiano la società nel suo complesso e preparano la strada a nuove innovazioni. La tecnologia azzerando alcune postazioni di lavoro umano distrugge non posti di lavoro ma funzioni di lavoro e crea lo spazio perché altre nuove e più ricche si vadano affermando.
Il manufacturing nell’era digitale apre le funzioni dei manutentori d’impianti, della programmazione e progettazione dei robot, delle stampanti 3D, della personalizzazione del prodotto finito, del commercio elettronico. Solo per fare qualche esempio. E solo la crescita determinata da funzioni più complesse e a più alto valore economico spinge in avanti e più in alto lo sviluppo della società nel suo complesso ed offre prospettive di futuro. Anche al costo di una fase di regressione economica nel breve periodo. Nuove competenze, nuove funzioni, nuove passioni, nuovo orgoglio del futuro. Solo questo permette di sostenere i costi economici dell’innovazione, certo non una tassa.
Bill Gates lo sa bene e fa da cassa di risonanza a un’inquietudine diffusa perché la società si rimetta in movimento e abbia fiducia di quel che ci riserva l’avvenire. Non conosco personalmente il fondatore di Microsoft ma sono convinto che la sua provocazione non sia il lancio di una campagna per nuove tasse ma un sottile progetto per rimettere al centro lo slancio battagliero di un passato non lontano. Mi auguro che anche la politica nazionale la pensi allo stesso modo e guidi con intelligenza l’innovazione evitando di fermarsi alla parola “tassa”. O finirà sostituita da un robot.
Source: agi.it/innovazione
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