“Mi sono sentita umiliata e violata. Piango ancora se penso al mio parto e non sono lacrime di gioia”. “Arrivo in ospedale dilatata di 8 cm. Signora lei in un’ora partorisce!! 17 ore di sala parto, manovra di Kristeller, episiotomia, 2 raschiamenti in 2 giorni, attacchi epilettici dopo anestesia, trasfusioni di sangue… Riesco a vedere mia figlia dopo 6 giorni”. Sono alcuni dei messaggi inviati da donne e madri sulla pagina Facebook legata alla campagna #bastatacere, lanciata un anno fa dall’attivista Elena Skoko e dall’avvocata Alessandra Battisti, insieme a 20 associazioni che si occupano di maternità, e diventata in poco tempo virale. Da quella campagna è nato un vero e proprio Osservatorio sulla violenza ostetrica, OVOItalia, che oggi ha presentato a Roma i dati di un’indagine Doxa, realizzata con le associazioni La Goccia Magica e CiaoLapo Onlus.
I risultati sono allarmanti.
Secondo la ricerca, effettuata su un campione rappresentativo di 5 milioni di donne tra i 18 e i 54 anni con almeno un figlio di 0-14 anni, un milione di donne – il 21% delle intervistate – negli ultimi 14 anni ha subito un’esperienza di violenza ostetrica durante il parto o il travaglio in ospedale, con differenze notevoli fra Centro-Sud-Isole (27%) e Nord (15-16%).
Il 41% del campione, invece, ha dichiarato di aver subito pratiche lesive della propria dignità o integrità psicofisica, ben definite da un importante documento dell’Oms: episiotomia e rasatura del pube (12%), rottura delle membrane e manovre di Kristeller (9%), impossibilità di lasciare la struttura (6%), sterilizzazione (3%), ma anche cesarei non voluti, uso della ventosa o del forcipe, induzione farmacologica del travaglio, visite vaginali invasive, umiliazioni verbali di ogni tipo.
Non sempre è vero che “è per il bene del bambino”
Così traumatica è stata l’esperienza vissuta da molte che circa il 6% di esse ha scelto di non avere altri figli, provocando di fatto la mancata nascita di 20.000 bambini ogni anno. C’è poi un altro dato inquietante: il 4% delle donne (circa 14.000 donne all’anno) afferma di avere vissuto una trascuratezza nell’assistenza con insorgenza di complicazioni ed esposizione a pericolo di vita.
“Dai racconti che molte donne ci avevano fatto per la campagna – spiega Elena Skoko, fondatrice e portavoce dell’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia – eravamo a conoscenza del fatto che per tante di loro l’assistenza al parto era stata un’esperienza traumatica. Ora sappiamo che il fenomeno è ancora più diffuso di quanto temessimo”.
“Ho assistito a trattamenti disumani, scene che se lo stesso compagno della donna avesse visto per strada avrebbe chiamato la polizia, ma che invece sono accettate perché rientrano nel nostro immaginario sbagliato e paternalista del parto”, spiega l’ostetrica Ivana Arena. Che aggiunge: “Gli operatori hanno una percezione del pericolo smentita dalle prove di efficacia più recenti: vent’anni fa sarebbe stato accettabile, oggi abbiamo evidenze scientifiche, basti vedere il documento sull’Intrapartum care for healthy women and babies del National Institute for Health and Care Excellence inglese, sul fatto che sostenere al massimo la fisiologia della gravidanza del parto ha degli esiti buoni. E soprattutto che non c’è conflitto tra gli interessi della donna e quelli del bambino, come spesso viene detto alla donna”.
Cesarei, quelle cartelle cliniche falsificate
Tra le pratiche indesiderate messe in atto con più frequenza spicca certamente quella dell’episiotomia – cioè un’incisione chirurgica della vagina e del perineo – eseguita “a tradimento”, cioè senza consenso informato, come testimoniano 1,6 milioni di partorienti (61%).
L’altra pratica diffusissima è quella del parto cesareo, a cui ricorre in media 32% delle partorienti, laddove l’Oms stabilisce un tetto di sicurezza del 10%.
“In questa occasione”, dice l’avvocata di OVOItalia Alessandra Battisti, “vorremmo ricordare che nel 2013 l’allora Ministro della Salute Renato Balduzzi condusse un’inchiesta, insieme ai NAS e all’Agenas, da cui emerse che il 43% di cesarei era ingiustificato e che buona parte delle cartelle cliniche era falsificata” . L’elenco completo delle misure violente si trova nella proposta di legge, appoggiata dalla campagna #bastatacere, presentata nel marzo 2016 dall’on. Adriano Zaccagnini, legge che per la prima volta cerca di riconoscere, anche in Italia, la violenza ostetrica come reato.
“Per evitare fraintendimenti”, precisa Ivana Arena, “va specificato che il problema non sono tanto gli interventi in sé, ma il loro costante abuso. È chiaro che il cesareo può salvare la vita, così come una episiotomia può essere necessaria, ma oggi si fa troppo quando non è necessario e poco quando realmente serve. Oltre al cattivo uso, la violenza nasce anche quando non c’è comunicazione corretta, quando la donna viene convinta a subire queste pratiche senza essere informata o senza che abbia dato il suo consenso”.
Tutti i diritti di chi partorisce
E poi ci sono i dati che raccontano di parti infelici perché fatti soprattutto di abbandono e solitudine. 1.350.000 donne, il 27% del campione intervistato, hanno dichiarato di essersi sentite seguite solo in parte dall’equipe medica, mentre un ulteriore 6% ha affermato di aver vissuto il parto in totale solitudine e senza assistenza. Ancora: il 27% delle madri ha lamentato una carenza di sostegno e di informazioni sull’avvio dell’allattamento e il 19% la mancanza di riservatezza in varie fasi e momenti della loro permanenza nell’ospedale. Inoltre, il 12% delle donne ha affermato che gli è stata negata la possibilità di avere vicino una persona di fiducia durante il travaglio; al 13% non è stata concessa un’adeguata terapia per il dolore.
“Manca una comunicazione vera tra operatori sanitari, i quali pure soffrono quando le cose vanno male, e le donne”, spiega Elena Skoko. “Non a caso l’ultima linea guida dell’OMS sulle cure prenatali per un’esperienza positiva della gravidanza è tutta impostata sul rispetto e il coinvolgimento dell’utente.
Ma le donne possono rifiutare i trattamenti?
“Sì”, risponde l’avvocata Alessandra Battisti, “li possono rifiutare dopo aver ricevuto tutte le informazioni e anche in relazione alle alternative possibili al trattamento proposto. Ecco perché il mio consiglio alle donne, che comunque possono denunciare casi di malpractice durante il parto, è soprattutto quello di documentarsi sui propri diritti. In primo luogo quelli a un’informazione adeguata ed esaustiva, al consenso informato, al rispetto della propria dignità e integrità fisica”.
Source: https://it.businessinsider.com
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