Qualche tempo fa sul New York Times è stato pubblicato un articolo che si intitolava How to raise a femminist son. Si trattava di un elenco di suggerimenti da seguire per crescere un figlio femminista, dove – è sempre utile ribadirlo – per femminista si intende “una persona che crede nella piena uguaglianza di uomini e donne”. Anche noi di Freeda avevamo deciso di parlare di questo articolo, e per un motivo ben preciso: negli ultimi anni il tema della parità sessuale sta diventando sempre più centrale nell’editoria infantile; le ragioni per cui stiamo assistendo a questo fenomeno sono evidenti e riguardano il fatto che per poter cambiare le cose – lentamente e faticosamente – bisogna partire dall’educazione. Il problema (se così si può definire) è che spesso questa esigenza è avvertita più nei confronti delle bambine che nei nei confronti dei bambini. Educare le bambine alla consapevolezza della loro forza e delle loro infinite possibilità (a prescindere dal loro sesso di nascita) è fondamentale, ma l’esigenza educativa non può e non deve riguardare solo un sesso. Perché un cambiamento reale possa avvenire è necessario che vengano coinvolte tutte le parti in gioco. Fenomeni come la discriminazione di genere, il sessismo o il maschilismo non possono essere combattuti senza l’aiuto e il sostegno degli uomini. Non è possibile. Ecco, quindi, perché avevamo deciso di ripercorrere la lista dei consigli che Claire Cain Miller aveva raccolto sul New York Times. Tra tutti questi (molto giusti e veri) uno in particolare mi aveva però colpito, quello relativo al consenso: insegnategli che “no” vuol dire NO.
Semplice, vero? Per niente. O meglio, l’aspetto controverso del concetto di consenso è proprio questo: che è molto semplice, eppure estremamente complesso nella sua applicazione concreta – e questa complessità è l’emblema di un certo tipo di cultura “negativa” in cui siamo ancora immersi, quella secondo cui contiamo più noi degli altri. Per poter educare davvero al consenso è quindi necessario prima di tutto parlarne, spiegarlo e comprenderlo fino in fondo. Ed è quello che proverò a fare ora, ma, prima una premessa importante: la cultura a cui mi sono riferita poco fa ha sicuramente a che vedere con una certa concezione della donna, come subordinata all’uomo, ma non può e non deve essere ridotta solo a questo. L’atteggiamento mentale che ci porta a pensare che noi contiamo più degli altri riguarda tutti, indistintamente. Ed è per questo che le considerazioni che farò sul consenso hanno una portata universale. Se in alcuni casi utilizzerò il maschile, quindi, non sarà per restringere il campo, ma per riferirmi a situazioni specifiche.
Su Youtube si trovano una serie di interessanti video dei Blue Seat Studio (la cui missione dichiarata è “educare attraverso lo humor”) utili a capire meglio di cosa stiamo parlando. Il più famoso tra questi si intitola Tea Consent e dura poco meno di 3 minuti, durante i quali i personaggi offrono o si vedono offrire una tazza di tè. Le dinamiche che scaturiscono da questa proposta sono le stesse del consenso.
Immaginiamo ad esempio di offrire a un’altra persona una tazza di tè. Se ci risponde di sì allora possiamo attenerci alla volontà che ha espresso e iniziare a preparare una tazza di tè. Una volta pronta, però, potrebbe accadere che a quella persona non vada più di berla, forse perché non le piace o perché ha cambiato idea. Ecco, in questo caso, anche se potrebbe darci fastidio il fatto di aver speso del tempo a preparare il tè, non abbiamo alcun diritto di costringerla a berlo ugualmente, ma, anzi, dobbiamo assicurarci che non si senta in dovere di berlo contro la sua volontà. Potrebbe poi capitare che la persona con cui vorremmo bere il tè non sia cosciente: non essere coscienti significa non poter cogliere il senso della domanda “vuoi del tè?” e quindi non poter esprimere la propria volontà. Risultato: una persona incosciente deve essere lasciata in pace e non essere costretta a bere del tè. Oppure, potrebbe succedere che la persona che all’inizio ci ha detto “sì, grazie” diventi incosciente qualche minuto dopo aver espresso la sua volontà, e, di nuovo, l’unica cosa che possiamo fare noi in questa situazione (visto che non abbiamo la certezza che voglia ancora il te) è non costringerla a bere il tè che abbiamo preparato.
All’inizio del video sul tè una voce fuori campo specifica che l’esempio in questione è utile a comprendere il concetto di consenso applicato all’ambito sessuale. In generale, è soprattutto in relazione al sesso che si parla di consenso – e le ragioni sono abbastanza ovvie: è il campo in cui è più urgente farlo, perché dove non c’è consenso all’interno di un rapporto sessuale c’è stupro. Di nuovo, può sembrare un’affermazione elementare, qualcosa che ci sembra di sapere da sempre, ma non è davvero così. Stupri e violenze sessuali sono al centro delle cronache dei giornali, perché fanno costitutivamente parte di quella stessa cultura di cui parlavamo all’inizio. Si è spesso parlato in questo senso di “cultura dello stupro”, esercitata nella maggior parte dei casi nei confronti delle donne, ma che può colpire anche gli uomini: i dati dicono infatti che su 100 persone stuprate più di 90 sono donne mentre meno di 10 uomini.
Soprattutto negli ultimi anni si è capito che l’educazione al consenso è un’arma fondamentale per combattere la cultura dello stupro. Per portare avanti questa battaglia è stato anche necessario modificare il ruolo del consenso nella legislazione sui reati sessuali. In un articolo pubblicato su Il Post Giulia Siviero ne ha ricostruito le tappe fondamentali, riconoscendo tre modelli: quello consensuale, quello limitato e quello vincolato.
Il modello consensuale puro dà rilevanza massima al consenso: significa che c’è un reato quando in qualsiasi tipo di relazione sessuale manca il consenso valido della persona offesa. Il modello consensuale limitato dà importanza non tanto al consenso, ma al dissenso: è cioè necessaria una effettiva e manifesta volontà contraria (dissenso) della persona che ha subìto una violenza. Il modello vincolato, che è anche il più diffuso, non attribuisce in modo esplicito al consenso un ruolo centrale, ma si basa sul fatto che le aggressioni sessuali, per essere perseguite e punite, debbano avere certe caratteristiche: violenza, minaccia, costrizione.
Il recente fenomeno dello stealthing, cioè la pratica esercitata da alcuni uomini che consiste nel togliersi il preservativo durante un rapporto sessuale, senza che la donna ne sia consapevole, ha acceso ancora di più il dibattito relativo al consenso e al suo ruolo giuridico-penale. A gennaio di quest’anno, in Svizzera, un uomo è stato condannato per stupro, per essersi tolto il preservativo durante un rapporto sessuale con una donna conosciuta su Tinder, che aveva espresso chiaramente la volontà di avere sì un rapporto, ma protetto. Questa sentenza aderisce e accelera la rivalutazione del consenso, dando legittimità ufficiale a una sacrosanta verità: la coercizione non si esercita “solo” attraverso la violenza e la minaccia, ma può assumere forme più ambigue, più subdole e non per questo meno gravi o meno lesive. Qualsiasi cosa venga fatta al nostro corpo senza il nostro consenso è stupro.
Sempre in uno video pubblicato da Blue Seat Studio per spiegare il consenso ai bambini questo riferimento al corpo viene definito bodily autonomy, e così spiegato dalla voce fuori campo: “nessuno può dirti cosa devi fare con il tuo corpo, né i tuoi amici, né gli adulti che conosci, né gli sconosciuti. Nessuno ha il diritto di decidere cosa fare con il tuo corpo, a parte te.” Ognuno di noi – prosegue la voce fuori campo – è diverso: a qualcuno piace essere abbracciato, a qualcuno no. Nessuno deve sentirsi costretto a essere abbracciato se non è davvero quello che vuole. Come si fa a capirlo? “Basta” chiedere.
Quando si parla di corpo o di violenza sessuale è relativamente più facile capire se l’altra persona desidera o non desidera un certo tipo di contatto. E, viceversa, è più semplice anche per l’altra persona capire se lo desidera o meno. Il corpo resta qualcosa di tangibile – volontà e consenso sembrano avere una maggiore immediatezza. Decisamente più complicato (anche su un piano giuridico), ma ugualmente importante e fondamentale, è il consenso applicato alla sfera emotiva. Soprattutto quando tra le due persone coinvolte c’è un legame affettivo le pressioni che una può esercitare sull’altra possono trasformarsi in forme di manipolazione. Possiamo cioè trovarci a fare qualcosa che non vorremmo fare perché ci sentiamo in dovere nei confronti di un’altra persona, perché altrimenti quell’altra persona si offende o perché abbiamo difficoltà a dire di no. Soprattutto in queste situazioni chiedere all’altra persona cosa vuole davvero è fondamentale.
Di recente mi è capitato di avere questa conversazione con un ragazzo di vent’anni, alle prese con una specie di amore non corrisposto.
Lui: “potrei andare a trovarla fuori dal lavoro”
Io: “chiediglielo. Se le fa piacere ok, altrimenti no”
Lui: “gliel’ho chiesto e mi ha detto che preferirebbe di no, ma magari è solo una strategia. Magari è il suo modo di dire di sì”
Ecco, in una situazione del genere, si comprende perfettamente il senso del consiglio dato da Claire Cain Miller sul New York Times: “insegnategli che no vuol dire NO”. Perché il consenso venga rispettato non basta chiedere a una persona se desidera o non desidera una certa cosa. Bisogna essere in grado di ascoltare la risposta, senza interpretarla, ma attenendosi a quello che dice. No vuol dire NO, e basta. Certo, possono esserci dei casi in cui diciamo “no” con poca convinzione, e magari una piccola parte di noi avrebbe voluto dire “sì”. Ma non importa: nessuno ha il diritto di interpretare una volontà non esplicitata, perché il rischio di prevaricare l’altra persona è troppo alto ed è proprio in questo rischio che risiede l’origine della maggior parte delle violenze sessuali o psicologiche.
Source: freedamedia.it
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