Fortunatamente, però, c’è ancora qualcuno che, scevro da ogni condizionamento spazio-temporale, si fa viva testimonianza del compimento della bellezza che si manifesta attraverso luoghi, storie e persone del posto in cui viviamo e ne fa sapiente conoscenza e discendenza.
Nottetempo, negli antichi borghi ai piedi dei monti abruzzesi, gli anziani, depositari di misteriose memorie e credenze ancestrali, s’improvvisano narratori di racconti e leggende popolari che, nel riverbero del focolare d’inverno, sembrano prendere vita e divenire reali.
Si racconta che Maja, la più bella delle Pleiadi, dovette fuggire dalla Frigia per salvare il suo unico figlio, il titano Ermes -chiamato il “Gigante” per via delle sue fattezze- gravemente ferito in battaglia.
L’oracolo, interrogato dalla ninfa, le ordinò di raggiungere le pendici di una grandissima montagna, al di là del mare, dove cresceva un’erba miracolosa capace di guarire anche le ferite più gravi.
Dopo un tragico naufragio, finalmente approdati nei pressi del porto dell’odierna Ortona, Maja e suo figlio s’incamminarono alla volta della maestosa montagna: attraversati boschi, dirupi e forre selvagge, l’aspra roccia concesse loro conforto riparandoli in una caverna scavata nella grande parete del Monte Corno.
La tregua durò poco: il terreno, sommerso da una spessa coltre bianca, rese impossibile la ricerca dell’erba taumaturgica e il Gigante, stremato dalle ferite e dal faticoso viaggio, morì tra le braccia della madre.
La dea, straziata nella morsa del cordoglio, lasciò l’antro rupestre e, caricatosi il corpo del figlio sulle spalle, raggiunse la cima del Corno Grande e lì lo adagiò, affinché fosse il più possibile vicino al cielo.
Sola, col cuore strattonato e l’anima sgualcita dal dolore, vagò mendicante per le alture innevate; in una piccola grotta, a levante rispetto al sacro monte dove riposava il Gigante, attese addolorata la morte.
Giove, allora commosso dalla funesta vicenda, per ricordare Maja e onorare il lutto del gigantesco figlio, fece crescere su questa montagna un piccolo albero dai profumatissimi grappoli di fiori gialli, il Maggiociondolo, che fiorisce ogni anno in maggio.
I pastori, impietosi dalla sua triste storia, fecero di quel luogo la sua degna sepoltura: la montagna prese allora la forma di una donna riversa su sé stessa, con i gomiti tra le ginocchia e la testa china tra le mani che, impietrita dal dolore in una funerea Pietà naturale, è tesa in una inconsolabile veglia materna;
in suo onore le fu dato il nome di Majella.
Ancora oggi, a chi guarda da Oriente, si presenta scolpita sui vertici della roccia l’immagine impetuosa e solenne del “Gigante che dorme” che si staglia nel cielo a dominio di uno scenario incantevole e suggestivo, nel quale si fonde come in un vecchio schizzo ad acquerello.
Ma, in virtù di un bizzarro miracolo della natura, se osservato da un’angolazione leggermente diversa, il Gigante assume le sembianze di una leggiadra e prosperosa fanciulla dalla chioma fluente che, supina, appare anch’essa dormiente, tutt’ora chiamata “La bella addormentata”.
Questa storia, seppure ci trasporti in una dimensione surreale e magica, denota un profondo significato umano, a tratti commovente, che richiama all’attenzione sul capitale smisurato della nostra cultura, a volte, troppo poco considerato:
e, nel silenzio ascetico di questi luoghi, in uno straordinario connubio tra realtà e fantasia, la leggenda sposa il paesaggio in un’eterea simbiosi che altrove non ha eguali.
Source: corrierequotidiano.it – cultura
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