A cosa non si sa, visto che molte volte ci si dimentica pure di averli e li si va a ricomprare, alimentando consumismo, spreco e plastica.
In un articolo su El Pais, Martín Caparrós fa una breve riflessione sugli oggetti, partendo da un dato di fatto: mentre una volta si sapeva tutto sulla loro provenienza e sulla loro utilità, oggi non sappiamo assolutamente nulla di ciò che teniamo in casa.
“Ci ho pensato ieri, quasi senza volerlo, quando ho attaccato alla parete del bagno di casa mia un gancio autoadesivo di pura latta: non avevo la minima idea, né la minima possibilità di farmi un’idea, della sua origine. Non avevo modo di sapere chi l’avesse fatto, dove fosse stato fabbricato, come fosse stato il lavoro e quale fosse stato il suo percorso da qualche angolo della Cina fino al cinese del negozio all’angolo. Come quasi tutto quello che usiamo, quel gancio arrivava dal nulla, ed è una cosa che non ci stupisce neanche”, scrive il giornalista.
Mentre un tempo gli oggetti avevano una storia, adesso non ce l’hanno più perché viviamo in una società delle migliaia di cose usa e getta, talmente tante che non ci interessa più neanche sapere da dove vengono.
“Il proprietario di un martello sapeva che lo aveva fatto Lope, quello della bottega dell’isolato a fianco, il figlio di Trini, la cugina dello zio Pedro. Ora no: e poi abbiamo così tante cose che se ne conoscessimo la storia non avremmo tempo di fare altro”, scrive Caparrós.
La conferma è in uno studio americano che stabilisce che in una casa ci sono 300mila oggetti e che un bambino inglese di 10 anni ha in media 238 giocattoli anche se poi finisce per giocare con dieci al massimo dodici. Secondo una compagnia di assicurazioni britannica, durante l’arco della nostra vita passiamo 200 giorni a cercare qualcosa che non troviamo più, mentre 2mila a comprare.
Qual è il punto? Che una parte del mondo spreca, mentre un’altra parte non ha nulla. Il 12% della popolazione di Europa e America consuma il 60% dei beni del mondo, il 33% più povero, africano e asiatico, consuma il 3%.
“Qualche anno fa sono andato a scrivere del Movimento dei sem terra in un angolo dell’Amazzonia.Una donna di nome Gorette mi ha prestato la sua capanna, e io ho creduto che la miglior descrizione della povertà fosse raccontare quello che c’era all’interno”, continua.
Spiega Caparrós, nella capanna di Gorette ci sono un machete, quattro piatti di latta, tre bicchieri, cinque cucchiai, due pentole di ottone, due amache, un recipiente pieno d’acqua, tre lattine di latte in polvere zuccherato, sale e latte in polvere, una lattina di olio piena, due lattine di olio vuote, tre asciugamani, una scatola di cartone con qualche vestito, due calendari di qualche negozio con dei paesaggi, un frammento di specchio, due spazzolini, un mestolo, mezzo sacchetto di riso, una radio che non prende quasi niente, due giornali del movimento, il quaderno di scuola, un recipiente di plastica per portare l’acqua dal pozzo, un catino di plastica per lavare i piatti e una bambola di pezza con un vestito rosso e una strana cuffietta. Questi sono i suoi averi nel mondo, insieme a tre tronchi per sedersi, un paio di infradito, una lampada a cherosene e niente più.
Per tanto tempo, molte persone hanno vissuto con lo stretto indispensabile, per cui ogni oggetto aveva un valore perché si aveva solo quello. Pensiamo alle nostre nonne, ad esempio, quelle che hanno vissuto durante le guerre mondiali, che hanno patito fame e freddo.
Di certo per loro non valeva la regola: se si rompe non fa niente tanto ne compro un altro. Chiaramente c’è anche chi ha abbracciato una cultura minimalista e si tiene alla larga dall’accumulo inutile, tuttavia scrive il giornalista, c’è un grande paradosso:
“Il sistema economico mondiale si nutre del fatto che noi abbiamo bisogno sempre di più cose, perché vive della loro produzione. Così se dicessimo basta, se ci organizzassimo per fare un uso razionale delle risorse, milioni di persone, operai, imprenditori, impiegati, commercianti, avrebbero gravi problemi”.
Source: greenme.it