‘Il panorama di Norcia è cambiato: una meta turistica che deve riscattarsi dal senso di abbandono’
Una geografia completamente stravolta, senza più chiari punti di riferimento, quella che si incontra a oltre due anni dalle scosse che devastarono dal 24 agosto 2016 il Centro Italia. Le abitazioni delocalizzate in villaggetti Sae (le Soluzioni abitative d’emergenza), le prime demolizioni che lasciano buchi enormi al posto di alberghi, ristoranti, palazzi, le macerie. La ricostruzione, d’altra parte, procede ancora troppo a rilento. A confermarlo i dati di Legambiente nel rapporto “Lo stato di avanzamento dei lavori nelle aree post sisma”. Sul fronte del recupero delle macerie pubbliche, sono 1.077.037 (40%) le tonnellate di macerie che, al 31 luglio 2018, risultano essere state rimosse nelle quattro regioni (Abruzzo 12% macerie raccolte, Marche 43%, Lazio 39% e Umbria 72%) su un totale stimato di 2.667.000 tonnellate. Il principale motivo dei ritardi è il tempo occorso per far partire la macchina. Nel momento in cui stiamo scrivendo, secondo i dati della mappatura della Protezione civile, manca il fine lavori per le aree Sae in alcuni paesi del teramano e della provincia de L’Aquila. «Serve e in tempi rapidi una struttura nazionale di coordinamento per affrontare i rischi del territorio italiano, che collabori e aiuti gli enti locali – commenta Maria Maranò, responsabile Osservatorio sisma di Legambiente – Inoltre un altro tema fondamentale è la gestione delle macerie». In questo panorama in continuo mutamento la sfida di chi è rimasto, e ha rilanciato con la sua impresa, è rappresentata da tante donne imprenditrici. Chi per scelta, chi per vocazione, molte hanno deciso di rimanere e di trasformare una inevitabile crisi in un’opportunità.
Paesaggi mutati
Il panorama di Norcia (Pg) è per forza di cose cambiato: una cittadina da sempre destinata a vivere di turismo, non solo artistico ma enogastronomico, oggi deve rilanciare la sua immagine nel mondo.
‘Non stacchiamo mai, lavoriamo sempre. Non so quando torneremo alla normalità’
Il centro storico è lesionato e fuori dalle mura si staglia il centro polifunzionale e antisismico progettato da Stefano Boeri, sequestrato dalla magistratura di Spoleto con l’ipotesi di abuso per avere edificato un’opera non temporanea, quindi non compatibile con le norme paesaggistiche dell’area. A luglio è stato disposto il dissequestro, ma nessuno lo ha più utilizzato. Si respira ovunque un senso di abbandono nella cittadina: in questo contesto Alessia Brandimarte con la sua azienda familiare gestisce un allevamento ovini, un caseificio, la coltivazione delle lenticchie di Castelluccio. Ha due figli di 2 e 6 anni e ad aiutarla in azienda ci sono il padre, la madre e la sorella. «Il 30 ottobre in soli 30 secondi 1.000 metri quadrati di struttura che comprendeva un fienile, un caseificio e una stalla sono caduti giù, crollati definitivamente – racconta Alessia – Il più piccolo aveva solo 4 mesi quando è arrivato il terremoto che non ha più permesso di farci rientrare a casa». La prima soluzione che le hanno proposto era trasferirsi sul lago Trasimeno. «Ma se è abbastanza facile spostare una famiglia – continua – è più difficile trasferire un’intera impresa: con scorte di fieno, la semina da fare, gli animali. Per questo abbiamo comprato una stalla tunnel, con la promessa di essere rimborsati. Ma la burocrazia in questo post-sisma ci ha strangolato».
Quest’anno finalmente hanno inaugurato un nuova struttura che comprende un caseificio, il punto vendita, un laboratorio e il magazzino. Alessia è molto orgogliosa: la struttura è migliore di quella di prima. «Lo abbiamo realizzato con fondi privati – ci tiene a precisare – e grazie all’aiuto di quattro imprenditori del varesino, che sono scesi qui giù e hanno mandato una persona di loro fiducia per monitorare i lavori». Alessia su questo ha le idee chiare: «In un momento difficile bisogna sapersi adattare e rilanciare: prima ad esempio non avevamo bisogno di andare alle fiere, oggi mia sorella con mia madre sono sempre in giro». Oggi tutta la famiglia Brandimarte abita in una stessa casa, mentre prima avevano tre case nel centro storico. E le difficoltà rimangono tante. Anche se la casa è antisismica, in legno e vicina al caseificio. «Non stacchiamo mai, lavoriamo sempre. Non so quando torneremo alla normalità».
Un prima e un dopo
C’è sempre un “prima” e un “dopo” del sisma che incombe nelle parole di chi lo ha vissuto. Come Amelia Nibbi, dell’azienda agricola Casale Nibbi vicino ad Amatrice (Ri), che confida: «La mia speranza è che torni tutto a prima, a quel 23 agosto, prima del terremoto». Casale Nibbi è un allevamento di bovini, un caseificio e una coltivazione di mele, ciliegie e patate.
A lavorarci oltre ad Amelia, che è la titolare, c’è anche il fratello Giuliano, il papà, la mamma e alcuni lavoratori esterni. «Con il primo terremoto, quello del 24 agosto, sono stati danneggiati e dichiarati inagibili il punto vendita e la concimaia con i liquami – racconta – Il 18 gennaio con le nuove scosse il caseificio, i capannoni, il frigo per le mele e due stalle su tre sono state completamente danneggiati. Credevamo di morirci sotto». La famiglia Nibbi, grazie ad aiuti di privati, delle associazioni e a prestiti dalle banche, ha ricostruito un punto vendita e il caseificio. Anche se sono tutte strutture non in muratura, simili a container. Le stalle però sono ancora in alto mare. «Non abbiamo aspettato i tempi della burocrazia, altrimenti avremo dovuto dichiarare fallimento –spiega – Per noi era importante ripartire subito, per continuare a dare lavoro non solo a noi ma a tutte le persone che collaborano con noi». La comunità per Amelia è tutto. «Con le prime scosse ci siamo ritrovati a ospitare tante persone a casa, anche un’altra famiglia intera». Perché dopo un terremoto bisogna sapere ricostruire pure una rete di relazioni. E questo Amelia lo fa ogni giorno.
Le radici sopra a tutto
Amare i luoghi di appartenenza sembra essere una delle principali motivazioni a spingere le imprenditrici a rimanere, nonostante le difficoltà.
È così almeno per Teresa Piccioni di Pietralta, nel comune di Valle Castellana, nel teramano. «A Pietralta abbiamo passato tutta la nostra vita – racconta – Ho 47 anni e tre figli: uno di 21, uno di 18 e un altro di 16 anni. Ci vogliono restare pure loro, anche se è un paese in mezzo alle montagne». Tutta la zona è stata colpita dal terremoto e dalla neve dell’inverno 2017. Oggi l’azienda di Teresa gestisce 450 tra capre e pecore, tre bovini, 150 polli, conigli e galline. «Le capre sono di una razza particolare, quella abruzzese, che siamo impegnate a tutelare. Hanno il colore bianco e nero sul muso – spiega la sorella Tiziana – Per loro, ma non solo, stiamo lavorando per far nascere un biodistretto relativo ai prodotti di queste zone». Pietralta sta affrontando un’ulteriore emergenza: tutta l’area è diventata R4, ovvero inedificabile. Tutta la zona è a rischio frana. E nel momento in cui scriviamo (15 ottobre, ndr) stanno ancora installando le casette Sae nell’area dedicata. «Il terremoto ci ha messo, letteralmente, in mezzo ad una strada – racconta Teresa – Ora aspettiamo anche le ultime valutazioni sulla verifica dell’area a rischio frana». Incombe un ulteriore pericolo che sembra incarnato dall’enorme sperone di roccia che sovrasta Pietralta. «Con il portafoglio pieno scegli dove vai – dice – Però, nonostante le difficoltà, a me è sempre piaciuto quello che faccio: amo gli animali e non potevo che diventare un’allevatrice. In più adoro vivere qui e non baratterei questo paese di montagna con nessun altro posto al mondo», conclude decisa Teresa.
Ripartenze resilienti
L’attaccamento a questo Appennino bellissimo e un po’ ingrato è qualcosa che contraddistingue anche un’altra allevatrice, Silvia Bonomi, romana, trasferitasi ad Ussita (Mc) da 15 anni.
«La mia storia di imprenditrice parte forse tutta da alcune vecchie foto del 1939 in cui mio nonno allevava questo tipo di pecora, la sopravissana, ormai quasi estinta. Abbiamo cominciato con quattro agnellini di razza e abbiamo puntato sulla qualità. Oggi siamo arrivati a 100 pecore», racconta Silvia.
Il terremoto è stata una vera e propria doccia fredda. «Con la scossa del 26 ottobre 2016 abbiamo perso casa – ricorda – Il 30 ottobre la stalla presentava dei danni ma noi non abbiamo richiesto nulla, per dare la priorità ai colleghi che avevano gli stabili crollati. Con la forte scossa con epicentro a Muccia del 10 aprile 2018 ci siamo ritrovati dalla sera alla mattina senza ricovero degli animali». Il 10 ottobre sono finalmente iniziati i lavori di delocalizzazione della struttura. «È davvero una buona notizia, finalmente – dice Silvia – La nostra stalla è infatti un perno della rete, un centro di propagazione della razza: non è un progetto di business personale ma un’impresa collettiva perché ogni beneficio ricadrà a cascata su tutto il territorio». Questo perché Silvia ad aprile 2017 ha fondato la rete d’impresa “Sopravissana dei Sibillini”, coinvolgendo altre persone nel recupero, quantitativo e qualitativo, degli esemplari.
L’idea centrale è di avviare diverse attività intorno alla sua nuova stalla. «Dalla pecora sopravissana viene un pecorino buonissimo, presidio Slow Food. Inoltre abbiamo già coinvolto due vecchine per la cardatura e la filatura della lana – spiega – E poi ancora: sarebbe bellissimo aprire anche ad attività con i bambini, ho già preso contatti per realizzare una fattoria didattica. Per finire servirà un punto vendita con i prodotti della zona e ho già allertato Stefano e Ambra del “L’ortolano dei Sibillini”». I ragazzi hanno prima comprato un furgone per continuare a vendere i prodotti. Poi, a causa della demolizione di uno stabile nella piazza in cui stavano, si sono trasferiti di nuovo. Ma l’entusiasmo e la passione di Silvia sono contagiosi. «Abbiamo regalato un ariete ad un altro allevatore di Arquata del Tronto, Mirko Trenta – dice – e anche lui inizierà con l’allevamento della sopravissana».
Questa pecora sta infatti diventando un emblema di rinascita per tutte le terre martoriate dal sisma. «Noi vorremmo somigliare alla sopravissana – conclude Silvia – Resiste al freddo rigido, ed è per noi il simbolo della resilienza post terremoto». Silvia intanto continua ad abitare in un Mapre, la soluzione abitativa per gli allevatori, a Sasso di Ussita: qui, nel centro storico non si può più entrare.
Condivide la casa con il suo compagno e sua madre settantenne: dentro fa freddo e c’è la condensa anche a ottobre. Con soli 40 metri quadrati a disposizione hanno dovuto comprare un’altra piccola struttura. Sempre provvisoria. Si spera.
Alla ricerca di casa
Quella abitativa è un’emergenza senza fine nelle terre del terremoto. Non solo per il ritardo nella consegna delle Sae. Basti pensare che a Visso, nell’area delle Soluzioni abitative di emergenza Cesare Battisti II, su 50 casette 35 sono da rifare. All’interno sono marce: sono state consegnate in fretta e furia il 29 luglio, ma i rivestimenti interni erano bagnati. Proprio a venti minuti da Visso, a Frontignano di Ussita (Mc) è nato il progetto dal nome evocativo di C.a.s.a., dall’acronimo “Cosa accade se abitiamo”. «Siamo un gruppo di persone che vivono tra le Marche e Bologna e abbiamo preso una casa in affitto – ci spiega Patrizia Vita – con l’obiettivo di lavorare con le residenze d’artista e non solo. Naturalmente legandole all’attuale contesto, alla comunità e alle necessità del racconto post-sisma». L’invito è rivolto ad artisti, docenti, ma anche fotografi e giornalisti, oltreché a ricercatori, naturalisti, camminatori. «Il primo artista che abbiamo accolto in residenza è “Godblesscomputers”, grazie al progetto “10Heartz” – racconta Patrizia – Ha trascorso una settimana con noi e la comunità di Ussita Frontignano, armato di microfoni ambientali per registrare suoni e voci dei territori colpiti dal sisma». Quest’estate, poi, hanno ospitato il geologo Francesco Aucone, insieme a cinque tecnici volontari per eseguire i rilievi delle frane e dei dissesti causati dal sisma nel Centro faunistico di Castelsantangelo sul Nera. L’obiettivo è realizzare un progetto di bonifica e recupero del centro e accelerarne la riapertura. Il prossimo passo è la realizzazione di una guida turistico culturale su Ussita che «terrà insieme passato, presente e futuro», scritta dagli abitanti insieme ad alcuni ospiti. Patrizia ha vissuto fino a 23 anni qui, poi per 20 anni si era trasferita a Roma. Nel 2012 era tornata a Ussita, trasformando la casa di famiglia in un lavoro. «Era un bed and breakfast particolare il mio: avevo l’orto sinergico, facevo corsi per l’autoproduzione. E proprio il 2016 era il momento di massimo successo: gli affari andavano a gonfie vele. Purtroppo con il sisma ho perso tutto». C.a.s.a è quindi un progetto che mette insieme una rinascita personale con quella della comunità. «A 49 anni sto cercando di capire che cosa fare da grande», dice con ironia. E ripartire dalla bellezza di questi posti sembra la soluzione. Lo è sicuramente anche per Rosangela Censori, che gestisce il Centro di educazione ambientale di Amandola (Fm). Dalla scossa del 24 agosto fino a novembre del 2017, per 15 lunghi mesi, il Centro di educazione ambientale è stato chiuso. La struttura non aveva danni gravi, ma era inagibile: i lavori sono stati fatti dal Comune che è il proprietario. A gestire il Cea, con un cooperativa che si chiama “Il chirocefalo”, erano tre donne ma, dopo il sisma, una di loro non ci lavora più, l’ha sostituita un ragazzo. «La primavera scorsa come richieste non è andata molto bene – racconta Rosangela – non avevamo fatto la dovuta promozione. L’estate ci siamo date da fare, abbiamo attivato un centro estivo per i comuni del cratere con il supporto della Caritas diocesana, l’unica istituzione che ha voluto dare un sostegno per i centri di educazione ambientale». Con l’autunno c’è stato un boom di richieste di visite, per le famiglie soprattutto. «Prima lavoravamo molto con le scuole: ora è difficile che ci scelgano. Io questo lo capisco, essendo una mamma – spiega – Questo settore si è completamente azzerato, le insegnanti non si prendono la responsabilità». È diverso per i gruppi di adulti. «Abbiamo dovuto cambiare il target a cui ci riferiamo: lavoriamo nell’ospitalità delle persone che vengono a fare corsi ad Amandola, perché chiaramente nell’area sono venuti a mancare i posti letto». Per lei e per il marito che vivono a Montemonaco tra i monti e i boschi, abitare qua è stata soprattutto una scelta di vita. «È importante sostenere questi territori, altrimenti si rischia lo spopolamento – conclude Rosangela – Già ora fa soffrire vedere tutte le frazione disabitate, sono rimasti, come si dice, “quattro gatti”. Prima c’era anche un turismo delle seconde case, le persone tornavamo tutti i weekend da Roma. Oggi non sono più ritornate. Forse il tempo contribuirà a far diminuire la paura del terremoto».
Non parla mai di paura Simona Balducci, guida del Parco e Aigae, Associazione italiana guide ambientali escursionistiche. Simona gestisce il centro visita del Parco nazionale dei Monti Sibillini, il museo del camoscio e anche il centro di educazione ambientale Valle del Fiastrone a Fiastra (Mc). «Prima del sisma avevamo una struttura bellissima, di 400 metri quadrati – racconta Simona – dentro c’era il centro visite, il museo del camoscio, i laboratori didattici, una sala convegni, aule didattiche e fuori un giardino sensoriale con le erbe officinali. Con il terremoto del 26 e poi del 30 ottobre la struttura è stata classificata inagibile. Noi, tutti e tre i fondatori della società Alcina, abbiamo avuto anche tutte le case distrutte e ci hanno trasferito sulla costa». A Porto Recanati Simona ha vissuto un periodo molto duro per la lontananza dai luoghi d’origine. A giugno 2017 sono finalmente tutti tornati. «Abbiamo ottenuto la delocalizzazione dal Comune: due container e mezzo a Fiastra, di fronte alla nostra ex struttura. Quando ci hanno consegnato i nostri container mi sono commossa al pensiero di avere qualcosa per ripartire davvero», racconta emozionata. «A Fiastra sono rientrati tutti, le aree Sae sono state consegnate – spiega Simona – Ma comunque per un periodo la nostra comunità è stata divisa. Per questo siamo stati supportati per un anno da due associazioni “Psicologi per il mondo” e “Psicologi per i popoli” in un percorso di ricostruzione dell’identità della comunità attraverso diverse attività tra cui quelle con le scuole del territorio». Intanto, dopo il sisma, il giardino del paese era stato abbattuto per fare spazio alla nuova area commerciale. «Abbiamo riprogettato, con i bambini della scuola di Fiastra, un nuovo parco – racconta Simona – Usando un’altra area in disuso: il Parco della rimembranza è divenuto il Parco della rinascita dei sogni». Simona è molto felice di essere tornata. «Per noi Fiastra è una casa dentro. Anche se è un’area sismica e sappiamo che tornerà il terremoto, il legame è così forte con questi luoghi e con le persone da essere indissolubile. Abbiamo tutti sofferto quando siamo stati trasferiti sulla costa. Questa per noi è casa. Non intendo fisicamente l’edificio della casa, non mi interessa, ma proprio la montagna». A chi non è mai stato da queste parti dice: «Qui abbiamo tante storie da raccontare, quelle legate al prima e al dopo, è come se avessimo vissuto un anno zero. Venite ad ascoltare le storie del Parco dei Monti sibillini, le nostre storie». E se la geografia è cambiata, basta rimanere in ascolto dei racconti. Per non perdere l’orientamento.
Source: lanuovaecologia.it