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L’incredibile vita di chi non sa cucinare

Il giorno del mio compleanno ho ricevuto un pacchetto con allegato questo biglietto: “Un libro che cambierà la vita a te e chi ti sta intorno.” Da amante di tomi da mille pagine e più, le mie aspettative erano altissime; la Trilogia della Fondazione di Asimov? Il signore degli Anelli? Dune? No. Si trattava de Il Talismano della Felicità, famoso libro di cucina di Ada Boni. Il libro si apre con questa dedica dell’autrice:

Di Voi, Signore e Signorine, molte sanno suonare bene il pianoforte o cantare con grazia squisita, molte altre hanno ambitissimi titoli di studi superiori, conoscono le lingue moderne, sono piacevoli letterate o fini pittrici ed altre ancora sono esperte nel “tennis” o nel “golf”, o guidano con salda mano il volante di una lussuosa automobile. Ma, ahimè, non certo tutte, facendo un piccolo esame di coscienza, potreste affermare di saper cuocere alla perfezione due uova al “guscio”

Dopo una grassa risata – seguita da frasi tipo: “Io so cucinare è solo che sono stanca” – l’esame di coscienza me lo sono fatta eccome, e sono giunta alla conclusione che sì, sono ormai multitasking, faccio tantissime cose assieme – più o meno bene – ma forse è il caso di mettere un punto su una questione che affligge da tempo me e, come dice il biglietto, chi mi sta intorno.

Non so cucinare. So mangiare, so scegliere i piatti quando ordino e so prepararmi ottimi panini – ma non so cucinare. E quel che è peggio, è che faccio parte di quella fastidiosissima categoria – a detta degli altri – di chi pensa di essere capace, ma poi non riesce a concludere una cena senza qualche inconveniente, tipo mappazzoni scotti, torte bruciate o carbonare liquide. Ho proprio delle oggettive difficoltà a seguire le persone che fanno cose straordinarie e poi pensano di rassicurarti con la solita frase: “Ma è facilissimo!” 

No! Niente risulta facilissimo a chi incolla il formaggio della cacio e pepe, riduce in poltiglia qualsiasi tipo di gnocchi e ha pure l’ardire di provare a fare cose assurde tipo gli spaghetti di zucchine. Ci provo a cambiare, ho anche degli slanci secondo me ammirevoli, ma non ci riesco.

In netta controtendenza rispetto al fiorire dei programmi di cucina, sono sempre stata negata – un po’ perché ho preso sottogamba la questione, un po’ perché credo che anche in cucina ci voglia un pizzico di talento o qualche qualità innata che io non ho. Pur avendo raggiunto un certo equilibrio, nel passato ho avuto momenti deplorevoli di cui mi vergogno, che hanno preso il sopravvento non appena sono andata a vivere da sola. Si possono sintetizzare in tre fasi.

La sopravvivenza

Non so dire esattamente quando ho deciso di vivere come se fossi in un rifugio antiatomico, ma immagino che il primo trasloco e la vita fuori casa abbiano causato in me una forte necessità di economizzare le forze – diminuendo però, drasticamente, la qualità della vita: parlo del condire l’insalata direttamente in busta ed agitarla come si fa col pandoro e lo zucchero a velo o scaldare l’acqua del tè nel microonde, cose di questo livello. Per diverso tempo, se non avessi avuto coinquiline pietose che hanno avuto compassione di me, sarei andata avanti a essere la cliente migliore di rosticcerie e pizze al taglio.

La rivoluzione e le scelte radicali

La cosa è durata per forza poco, visto il crescere di un certo senso di responsabilità nei confronti di me stessa che mi ha portato a dire No alla sciatteria e Sì alla cucina. Peccato che non sono umilmente partita dalle basi, dalle proposte normali e semplici della nostra tradizione ed ecco quindi che, per uscire dalla spirale di surgelati e di un frigo che mi proponeva solo uova e maionese in tubetto, sono passata ai cibi etnici e alla scelta di materie prime unicamente bio. Una cosa buona, se non fosse che era presto per le sperimentazioni: se non si riesce a preparare un piatto di pasta decente, come fare con il tofu, le tortillas o le zuppe speziate a base di latte di cocco? Sono gli anni della panna vegetale, la moussakà di seitan e i vermicelli di soia con una TONNELLATA di salsa di soia. Tutto molto entusiasmante per me, poco per gli altri.

Il minimo sindacale

Dopo l’esperienza poco fortunata dei miscugli che cercavano di imitare la cucina etnica, sono più o meno riuscita a stabilizzarmi su una capacità media di assemblare gli ingredienti per un pasto, specializzandomi nella nobile arte di quella che un mio amico romano ha definito: “l’acchittare una cena con le proposte del frigo.” Questo non vuol dire che sono una di quelle cuoche che mettono su una cena coi fiocchi con niente, ma semplicemente che mi arrangio con quello che trovo.

Il problema di adesso è piuttosto invitare qualcuno a cena. Perché se è vero che ormai qualcosa di decente lo preparo – e ho mantenuto comunque un certo entusiasmo che mi fa essere soddisfatta delle mie creazioni – vado nel panico quando invito qualcuno. Vorrei dimostrare a tutti che sono migliorata, ma non riesco perchè sono emotiva e peggioro la situazione con l’ansia da prestazione. La scena si propone ogni volta è la seguente:

Tutto questo per dire che, non potendo contare né sulle mie attuali capacità, né su un servizio da asporto perenne, dopo questo regalo sono ormai pronta a cambiare: quest’estate mi dedicherò allo studio del prezioso tomo di Ada, perché, come dice la sempre saggia Virginia Woolf:

Non si può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si ha mangiato bene.

Source: freedamedia.it

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