Mi chiamo Jonathan, ho 32 anni, i capelli castani e gli occhi marroni, peso 66 kg e sono alto un metro e 78. Ho il 43 di piede, un neo sotto l’occhio destro, una voglia rossa sotto la pianta del piede sinistro, il naso un po’ storto e ho l’HIV.
Quando ho detto a mia madre del virus, al telefono, è successo quello che temevo: s’è messa a piangere. Subito ho provato a dirle che no, non era il caso. Non siamo più negli anni ’80, o all’inizio degli anni ’90. La medicina ha fatto progressi eccezionali. Trent’anni fa probabilmente sarei morto, ma oggi con l’HIV si convive. Le cure la rendono una malattia cronica. Ma lei non si fermava. “Lo so, però…adesso, per tutta la vita…dovrai prendere farmaci. Sarai sempre sotto controllo“. Il che, alla fine, è vero. Era una sera di inizio febbraio. Ero di là, in camera da letto. Facevo avanti e indietro mentre parlavo con lei. Avevo il telefono in mano e la febbre da tre settimane.
È iniziato tutto l’11 gennaio 2016. Ero tornato dall’università all’ora di pranzo. Mi sentivo fiacco. “Avrò preso freddo“, ho pensato. Mi è salita la febbre, credevo fosse un’influenza normale. Invece la febbre non è più andata via. Ho iniziato a fare esami su esami. Il mio medico pensava fosse mononucleosi. Ho preso vitamine, integratori, ho fatto inalazioni continue di oli essenziali. Mi è venuta la tosse, ho avuto il mal di gola più lungo della mia vita. Niente sembrava in grado di farmi passare quella febbricola persistente che oscillava tra 37 e 37.2, 37.2 e 37. La tachipirina non faceva effetto, ho maturato un rapporto morboso col termometro. Sentivo che nel mio corpo qualcosa aveva preso a funzionare in modo diverso: non sarei guarito da solo. Ho iniziato a cercare su internet: mi sono convinto di avere qualsiasi malattia esistente al mondo. Per quasi sei mesi non sono più uscito di casa.
Ho scoperto di avere il virus dell’HIV in una stanza sotterranea del San Raffaele, l’ospedale alla periferia di Milano sormontato da una grossa cupola con la statua dell’angelo. L’ho saputo da un medico coi capelli bianchi e dei segni rossi sul viso, come dei capillari spezzati. Sembrava un prete. Era in imbarazzo quando mi ha detto: “Lei sa qualcosa del virus dell’HIV?“. Non mi guardava negli occhi. Ho capito subito. Eravamo in tre in quella stanza: io, lui e Marius, il mio ragazzo. Non avevo mai fatto il test prima di allora.
Ho iniziato a fare sesso piuttosto tardi, a 19 anni, e non ne ho fatto neanche poi tanto. I miei amici mi chiamavano “suora”: ero tutto yoga e rimedi naturali, ed ero più da cotta che da serata organizzata con Grindr. Sono uscito con molte persone, ma meno della media dei ragazzi gay che ho conosciuto. Cercavo di starci attento, sì. Ho avuto rapporti non protetti solo con tre o quattro persone e nessuna di queste ha il virus. Se non mi hanno mentito, potrei averlo preso con un rapporto orale. È molto raro ma può succedere, soprattutto se il ragazzo con cui fai sesso non sa di avere il virus e ha una carica virale alta. Una volontaria della LILA una volta me l’ha detto, sarcastica: “Rischio basso non vuol dire nullo, non vuol dire zero“.
Scioccamente ho sempre preso più precauzioni quando non ero innamorato: come se il sesso occasionale meritasse di essere punito, come se i miei sentimenti invece potessero in qualche modo proteggermi. Non sono manco cattolico: da dove mi arriva questo senso di colpa nei confronti del sesso?
Non avevo mai fatto il test perché avevo paura. Sapevo che in caso di contagio è molto meglio saperlo subito, ma non riuscivo a tradurre in azione quel presupposto mentale. Non sono riuscito a prendermi cura di me. Sono stato ottimista. O forse ho solo spinto il pensiero in un angolo buio della mia testa. Tra le cose a cui non si riesce a pensare.
Avere il virus senza saperlo è molto pericoloso. Oggi con i farmaci viene tenuto sotto controllo. L’aspettativa di vita è ormai analoga a quella dei sieronegativi, ma bisogna iniziare la terapia al più presto. E invece io, non sapendo di avere il virus, ho lasciato passare del tempo. Almeno tre anni, forse anche più. Sono stato fortunato. Avrebbe potuto andarmi peggio.
L’ho saputo a febbraio e a dicembre ho deciso di dirlo a tutti. Ho deciso di farlo sapere a più persone possibili perché odio sentirmi obbligato a fare qualcosa. E quando ho scoperto di avere il virus nel giro di poco io ho capito che il messaggio che la società ti manda è che hai una cosa che non va bene e che non deve essere vista. Non dirlo in giro, non mettere a rischio la tua reputazione. Non avrei sopportato di tacere, fingere o di sentirmi parlare alle spalle. Ho scritto il mio coming out e l’ho pubblicato in occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS. Il virus non lo sentivo “mio”: ho voluto dirlo a tutti per imparare a familiarizzare con questa nuova parte di me attraverso lo sguardo degli altri. L’ho fatto e sono stato inondato di messaggi di stima e di affetto.
Ho deciso di vedere cosa sarebbe successo nel fare quello che tutti mi sconsigliavano. Ho deciso di mettermi al centro dello stigma che ancora c’è attorno a questa malattia, per liberarmene. Hai fatto troppo sesso, l’hai fatto male, in modo incauto, smodato. Non bisogna dirlo? Lo dirò a tutti. Sì, qualche episodio spiacevole è capitato. Ad esempio l’estate scorsa, quando ho scaricato Sarahah, l’app per i messaggi anonimi e sono stato riempito di messaggi decisamente sgradevoli. Non mi hanno ferito: credo dietro ci fosse una sola persona poco felice della sua vita.
Ora convivo col virus da quasi due anni. Vivo col mio ragazzo e i nostri gatti. Prendo una pastiglia la giorno. È molto grossa, tipo un confetto. A volte mi da qualche problema di digestione, ma più o meno riesco a gestire tutto. È importante essere precisi con le medicine: si chiama aderenza, l’accuratezza – anche d’orario – impedisce al virus di riprendere a replicarsi. In futuro dovrebbero arrivare sul mercato i tanto attesi farmaci iniettabili, che alleggerirebbero non poco la vita delle persone che hanno il virus. Un’iniezione al mese – o addirittura ogni due – al posto dell’impegno quotidiano, delle sveglie sul telefono, del portapillole coi giorni della settimana.
La mia vita ora, passato il periodo della diagnosi, è tornata più o meno la stessa di prima. Avevo sogni e progetti, li ho ancora. Ero inquieto e indeciso, lo sono ancora.
Certo se tornassi indietro – nota bene: questo è un consiglio – farei il test periodicamente. Chiederei a qualcuno di accompagnarmi, magari. O prenderei il kit fa-da-te che ora vendono in farmacia. Farei quel passaggio mentale per cui si deve avere paura, non di scoprire, ma di non sapere. La diagnosi non è la fine del mondo, giuro. Ti salva la vita.
Mi chiamo Jonathan, ho 32 anni, i capelli castani e gli occhi marroni. Ho l’HIV e non ho paura di dirlo.
Source: freedamedia.it
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