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Le vere start up innovative in Italia sono poche e non riescono a fare il salto di qualità

Che cos’hanno in comune uno stand per gelati, un’agenzia di viaggi e un artigiano maestro nella produzione della carta?

Tutti e tre sono start up innovative. O, quantomeno, tutti e tre sono iscritti nel registro delle aziende “che hanno come oggetto sociale esclusivo e prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico”, come da definizione del cosiddetto Decreto Crescita 2.0 del 2012 (legge 221/2012) che ha istituito il registro e la definizione stessa di start up innovativa.

Possibile? Possibile.
Basta sfogliare le società incluse nell’elenco per rendersene conto. Tra le 7.398 imprese c’è chi vende gelati, carta e viaggi, ma anche la cara vecchia consulenza gestionale o agenzie di comunicazione e pubblicità, che con l’immaginario dei nerd da garage impegnati a scolpire il futuro a colpi di intuizioni geniali  – o anche solo con servizi ad alto valore tecnologico – c’entrano davvero poco.

 

D’altronde, spiega Antonio Ghezzi, direttore dell’Osservatorio Startup Hi-tech del Politecnico di Milano, «per figurare come innovative le società devono autocertificarsi e basta rispettare parametri parecchio laschi per essere accettati». Quali siano i vantaggi nel farlo è presto detto: “Alleggerimenti burocratici e fiscali, gestione societaria flessibile, disciplina del lavoro tagliata su misura, piani di incentivazione in equity, equity crowdfunding, facilitazioni all’accesso al credito bancario, incentivi fiscali all’investimento, fail-fast”, si legge sul sito del registro stesso.

Misure importanti per coltivare una cultura imprenditoriale capace di cambiare e di rischiare, ma anche sufficienti ad attrarre nell’elenco schiere di iscritti: e numeri alti, in crescita da Nord a Sud,  sono un’ottima notizia da comunicare per un Paese malato di vecchiaia e in perenne affanno.

Tuttavia, la narrazione della start up stevejobbiana in grado di redimere una nazione e conquistare ventenni si appanna nella realtà di altri numeri. A partire dal fatto che il 40% delle aziende iscritte al registro ha un solo dipendente, il fatturato medio nel 2015 è stato è pari a 122 mila euro per impresa e il 57, 96% delle società risulta essere in perdita (dati ministero dello Sviluppo economico).

 

A sigillare il tutto, poi, c’è il numero degli scale up, ovvero di imprese che sono riuscite a uscire dalla fase iniziale e a consolidarsi sul mercato, censito da un impietoso rapporto StartUp European Partnership: non un ente prono a interessi nazionali, bensì istituito dalla stessa Commissione Europea.

Gli scale up italiani sono stati 135 in tutto, con capacità di attrarre capitali pari a 900 milioni di euro complessivi. Potrebbe sembrare un risultato non male, se non fosse che in Inghilterra si sono invece consolidate 1.512 start up con 20,2 miliardi di finanziamenti e in Germania 442, per 10,2 miliardi raccolti.

Anche i nomi, a sentirli, danno l’idea della differenza: mentre in Italia si iscrivevano nel registro degli innovatori siti internet che vendono pacchetti vacanza o banchetti per fare il gelato in rulli, Berlino consolidava colossi quali Zalando e Delivery Hero (cui fa capo, tra gli altri, Foodora), a Londra crescevano Shazam, Deliveroo e Just Eat, e Stoccolma cullava Spotify, che ha cambiato per sempre l’industria musicale.  Dalle nostre parti solo Yoox (fondata nel 2000 e listata in borsa dal 2009), l’ecommerce della moda, poteva competere e finire nelle statistiche.

 

Il problema di una simile débâcle – spesso mascherata da mezzo successo – non è solo culturale (il famoso refrain degli italiani poco avvezzi all’innovazione), o di costo del lavoro,  come evidente dalle agevolazioni messe in campo. La questione è sistemica nel senso più letterale, e deleterio, del termine: «A partire dal fatto che chiamarle start up innovative è una tautologia: per definizione la start up deve esserlo», spiega Ghezzi, il cui osservatorio ha infatti scelto di censire solo le aziende high tech a reale contenuto innovativo e già in grado di attrarre investimenti (che, peraltro, sono soltanto 650, il 30% delle quali non ha ritenuto utile o rilevante iscriversi al registro del ministero).

Leggi anche: Egomnia, il grande bluff diventa un film che fa male alle vere startup

Passando poi per il ruolo di venture capital e incubatori, associati al mondo dell’innovazione perché potenzialmente capaci di determinarne le sorti.

I primi dovrebbero investire sulle aziende, diversificando e accettando il rischio della scommessa: «Ma in Italia manca liquidità e così i venture si trasformano in attenti valutatori, molto specializzati per segmenti, che giocano sul sicuro: al posto dei ragazzini nei garage, qui si finanziano imprenditori con età media 38 anni, come ha rivelato uno studio dell’Osservatorio. Ciò non è necessariamente sbagliato ma è evidente che si creano delle distorsioni».

Per non dire poi del ruolo degli incubatori: «Chiunque avesse dello spazio libero a un certo punto ne ha istituito uno: c’è stato un momento paradossale in cui esistevano più incubatori che start up finanziate. Peccato che in teoria l’incubatore dovrebbe offrire guida e supporto per dare forma a un’idea e rendendola un’impresa, non consulenze spot offerta da management vario», conclude Ghezzi.

Negli Stati Uniti, per dare un’idea, si può fare da mentori ai giovani startuppari solo se si è riusciti  a vendere una propria società per almeno un milione di dollari. Da noi, non ci sono limiti né reali requisiti. Così, il grande mito della start up cresce alimentandosi delle sue inadeguatezze.

Source: https://it.businessinsider.com

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