Vanessa Beecroft è l’artista italiana contemporanea più famosa al mondo. Le sue opere esplorano il corpo e l’identità femminile: da molti anni lei infatti pone al centro della sua riflessione i temi dello sguardo, del desiderio, dell’alienazione e dell’esposizione mediatica, usando come soggetti dei suoi lavori delle donne.
Quello che mi anima, spesso, è la volontà di rappresentare il corpo femminile nella sua totalità: nei suoi traumi, nei suoi desideri.
È famosa soprattutto per le sue performance, realizzate ricorrendo a ragazze, più o meno vestite, da lei stessa disposte in gruppi minuziosamente coreografati. I suoi lavori hanno per titolo le sue iniziali più un numero seriale progressivo – VB01, VB02, VB03, ecc. – e vengono immortalati da video e fotografie monumentali, i quali diventano poi, a performance conclusa, a loro volta opere, da esporre nei musei e conservate dai collezionisti.
Vanessa Beecroft presenta il suo lavoro così:
Considero le performance e le sculture sempre come “pitture”. Disegni e sculture ma anche performance e quadri hanno in comune alcuni motivi. Il corpo femminile, il ritratto, il frammento, la moltiplicazione dei corpi e dei ritratti, la bellezza, la melanconia e la sofferenza. E, inoltre: il colore, l’attenzione alla geometria, l’aspirazione a un’astrazione non realistica. I modi in cui questi motivi sono messi in scena cambiano, ma il senso resta il medesimo.
Nata a Genova da madre italiana e padre inglese, Vanessa oggi vive e lavora a Los Angeles – ha studiato all’Accademia di Brera di Milano, e proprio a Milano ha iniziato a muovere i primi passi nel mondo dell’arte. Alla sua prima mostra alla Galleria Inga-Pin, nel 1993, non si limitò ad appendere opere al muro, com’era previsto, ma decise di riempire lo spazio a disposizione con 30 ragazze fermate per strada e vestite con i suoi abiti, intonati ai colori dei disegni sparpagliati a terra.
Costrette spesso a rimanere in equilibrio per ore su tacchi vertiginosi, con parrucche o accessori uniformanti, mute, esposte al voyeurismo o all’imbarazzo del pubblico: ciascuna delle partecipanti alle sue opere deve attenersi a una serie di norme precise, che Vanessa Beecroft stabilisce in anticipo, con l’obiettivo di comporre “quadri viventi”.
Ordina alle sue modelle di non muoversi troppo, di non guardare il pubblico, di mantenere le posizioni assegnate: opera una regia che, se da un lato produce tableaux vivants che si ricollegano ai grandi affreschi rinascimentali, dall’altro ricorda scene di kolossal. (Angela Vettese)
Per lei poi il nudo non è affatto una scelta casuale:
La mia ricerca sul nudo nasce da quando studiavo all’Accademia di Brera. Non riuscivo ad essere soddisfatta della rappresentazione grafica del nudo. Per me la nudità era minimalismo, e devo aggiungere che personalmente mi imbarazza. Certo, le ragazze erano esposte solo in contesti artistici come i musei. Tuttavia mi sono resa conto sin dall’inizio che questa esposizione avrebbe avuto delle inevitabili implicazioni, e ho cercato di approfondirle.
Ha sempre dichiarato che le sue performance nascono non solo dalla presenza del corpo femminile ma anche dalla memoria che ne abbiamo attraverso il canone classico.
La classicità, per me, non è un valore universale: indica, invece, una fase storica che continua a incidere sulla nostra visione delle cose. Anche se ogni visione è relativa al tempo in cui si manifesta. Io non credo in nessun formalismo o estetismo. Credo non nell’imitazione del classico, ma nello spirito e nella memoria del classico stesso. La forma autentica comunica un messaggio sempre nuovo.
Mantiene costante il riferimento alla tradizione: dice di ispirarsi a Botticelli, Piero della Francesca e De Chirico per le prospettive delle sue composizioni, sfruttando il make up come tavolozza per gli incarnati.
La verità è che i miei riferimenti sono le pitture del Rinascimento: non ho avuto immediati riferimenti di performer perché sono sempre troppo…performativi. I miei riferimenti sono sempre state le immagini fisse, non potendo riprodurle con la pittura le ho realizzate con gli esseri umani.
Le opere di Vanessa Beecroft hanno il compito di sostare sulla soglia. Il suo intento principale è creare un’immagine che spiazzi l’osservatore, costringendolo a guardare senza dargli però il senso preciso, univoco di costa sta guardando. Nei suoi gruppi convivono elementi diversi: celebrazione della donna o rappresentazione della sua sottomissione? Critica o pura estetica? Lavora con l’immagine femminile in qualche modo per spogliarla dell’omologazione, della violenza oppressiva degli stereotipi, dei pregiudizi che guidano i nostri occhi. E per farlo li ingigantisce, li esaspera.
La nudità che esalta con le sue modelle è una provocazione che molti hanno frainteso non cogliendo un fatto fondamentale: gli spettatori non sono innocenti. Abbiamo dimenticato di pensare contro noi stessi – sembra ricordarci Vanessa Beecroft – di affrontare il disagio che può avere un pensiero contro di noi. In questo senso, la distanza rarefatta che lei crea tra modelle e spettatori è fatta apposta per riempire di dubbi chi guarda, per mettere al centro della scena lo sguardo dell’osservatore e le sue intenzioni.
Ha incentrato buona parte del suo lavoro sulla tendenza delle persone a uniformarsi. Nel tempo ha concepito performance sempre più ambiziose, faraoniche, capaci di coinvolgere decine di modelle professioniste ma anche di uomini in uniforme – e con tanto di truccatori, tecnici delle luci, tecnici di ripresa video presi dal mondo del cinema e della moda.
Il suo lavoro non si esaurisce però con le performance: è anche disegnatrice, pittrice e scultrice. Piccoli disegni a matita e acquerello – “come pagine di un diario, trascrizioni intime degli stati d´animo. Li faccio così fin da quando ero piccola. E provo lo stesso pudore nel mostrarli che avevo all´inizio” – ma anche tele enormi, realizzate a volte direttamente nello spazio espositivo, inchiodando la stoffa al muro.
Uno dei suoi primi lavori è stato Book of Food, un libro-agenda su cui Vanessa aveva annotato per anni, giorno per giorno, quantità e colori di tutto ciò che ingeriva. Non è un segreto che abbia avuto un rapporto faticoso con il cibo, fatto di ossessioni e tabù (ad esempio cromatici) . Le ragazze filiformi poco più che silhouette, che schizza ossessivamente nei suoi disegni, sono le stesse con cui s’identifica.
In tutto quello che faccio c’è una componente autobiografica, anche se solo ora sto iniziando a capirlo, o forse ad ammetterlo. Quando anni fa una mia assistente mi ha chiesto perché scegliessi solo ragazze che mi assomigliavano, sono caduta dalle nuvole. E invece è vero che per le performance seleziono solo determinati volti, come se cercassi di abbozzare un autoritratto. Non riesco a vedermi in un modo solo: preferisco che la mia immagine si possa duplicare, triplicare, moltiplicare.
I miei sono calchi dal vivo. Frammenti di parti del corpo sensuali o tragici: un seno, un ventre, una bocca, una mandibola, un ginocchio, un osso, un piede, un pezzo di mano. Ho esposto anche due sculture giganti: sembrano rifarsi a un’iconografia antica, ma sono decostruite. Inoltre, ho presentato un paesaggio di teste, abbozzate come schizzi con la creta. Le ho modellate in modo brutale, come quando disegno su carta. Quello che conta, per me, è riuscire ad arrivare a una conclusione. Ma so che quella conclusione è forse impossibile da ottenere.
Laura Mulvey, nota critica cinematografica, a metà degli anni ’70 ha teorizzato il male gaze: la visione di un film, secondo lei, è sempre mediata da uno sguardo maschile, sguardo con cui lo spettatore irrimediabilmente si immedesima e dal cui punto di vista trae piacere. Il male gaze si può applicare all’arte in generale: il soggetto femminile è quasi sempre ritratto come oggetto del desiderio voyeuristico maschile, e le donne spettatrici devono necessariamente adeguarsi a esso, assumendo loro stesse questo punto di vista oggettificante.
Vanessa Beecroft in questo senso compie quindi un atto sovversivo di riappropriazione proprio del gaze, ribaltandone il significato e ridefinendo lo sguardo femminile della donna nei confronti delle altre donne e, facendo questo, ha dato vita a tutta una nuova generazione di artiste donne, consapevoli del linguaggio contemporaneo e del potere rappresentativo dei media e interessate a svelarne il fascino ma soprattutto le contraddizioni.
Source: freedamedia.it
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