La prima volta che sono entrata in un ufficio avevo 24 anni. Mi ero laureata qualche mese prima, avevo fatto tantissimi concorsi pubblici nella speranza di riuscire a fare un dottorato, ma avevo capito che imparare a fare qualcosa che fosse un po’ più concreto dello studio, sarebbe stato di vitale importanza. Il primo giorno ero felice e piena di speranze; quello successivo ho iniziato a spuntare le ore e i mesi che mi separavano dalla fine dello stage. Quando qualcuno mi chiedeva come mi trovavo in quel posto, rispondevo, senza mezzi termini, che non mi piaceva, e che non vedevo l’ora di finire e trovare qualcosa di nuovo. Nella maggior parte dei casi mi sono sentita dire: “è lavoro, mica ti deve piacere”.
Come ogni aspetto che riguarda le nostre vite, anche la sfera lavorativa è interessata da una serie di stereotipi e pressioni sociali. Abbandonato per sempre il sogno della stabilità che ha caratterizzato le carriere delle generazioni passate, il nostro approccio al lavoro ha iniziato ad essere caratterizzato sempre di più da due luoghi comuni: l’idea che per lavorare bene ed essere produttivi sia necessario lavorare tanto, seguendo ritmi folli e rinunciando a tutto il resto, e l’idea che il lavoro non sia un’attività piacevole, ma semplicemente qualcosa che bisogna fare per riuscire a campare. Ne risulta una qualità della vita non esattamente entusiasmante. Ma le cose stanno davvero così?
La seconda volta che sono entrata in un ufficio ho capito che la risposta a questa domanda è no. Le cose non stanno così, o almeno non per forza. Cosa me l’ha fatto capire? A differenza del mio primo lavoro, in cui sentivo di essere stata scelta per svolgere una mansione a sé stante, indipendentemente dalle mie capacità umane e relazionali, nel secondo caso ho avuto fin dal primo colloquio la sensazione di essere valutata come potenziale parte di una grande squadra. Prima ancora delle mie qualità professionali, importava il mio carattere, la mia propensione alla collaborazione e all’integrazione. Nella maggior parte dei casi, i nostri percorsi didattici non ci insegnano a lavorare in gruppo, ma, anzi, lo studio come attività propedeutica alla carriera, viene vissuto come un momento personale e competitivo. Per questo lavorare in team, all’inizio, può non essere facile. Ma basta poco per rendersi conto che è la chiave di tutto, l’elemento che rende alta la qualità della propria vita lavorativa.
Chiunque abbia avuto esperienza del lavoro da remoto, quello in cui si passa la propria giornata da soli, davanti a un computer, spesso pigiama, sa bene quanto il rapporto con i propri colleghi sia importante. Non solo perché confrontarsi con gli altri aiuta ad avere spunti sempre nuovi, snellisce il tempo di svolgimento di un lavoro, migliorando la nostra efficienza nel rispettare le scadenze, e quindi la soddisfazione che proviamo ogni giorno. Ma anche perché le relazioni umane sono fondamentali per tenere alta la motivazione nei momenti più difficili e stressanti. Lavorare bene non significa sacrificare la propria esistenza, rintanandosi fino a notte fonda tra le mura di un ufficio: ormai abbiamo capito che quello che facciamo non dipende dalla quantità di tempo che le dedichiamo, ma dalla qualità. Lavorare bene significa adempiere alle proprie scadenze con competenza, per poi avere il tempo di tornare a casa e fare altro – perché no, magari anche lavorare a un proprio progetto. Perché si sa, nessuno di noi è una cosa sola.
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Con il progetto The Work Behind, Red Bull racconta il dietro le quinte di alcune realtà lavorative giovani e innovative, il cui successo è garantito dal lavoro di squadra.
Source: freedamedia.it