Le popstar bianche possono usare i look e i modi di fare tipici della cultura black e afro? C’è qualcosa di strano o addirittura di sbagliato se ragazze che nulla hanno a che vedere col ghetto tengono classi in cui insegnano a twerkare? Lo yoga che si è diffuso in occidente è una forma di furto culturale? Questo tipo di situazioni oggi creano dibattito, e si sente spesso parlare, in riferimento a casi del genere ma anche a scenari di altro tipo, di appropriazione culturale.
L’espressione “appropriazione culturale” (in inglese: “cultural appropriation”) è stata coniata all’inizio degli anni ’90 dai sociologi americani, anche se in realtà le accuse di appropriazione culturale sono diventate comuni a livello popolare soprattutto negli ultimi anni, attraverso una serie di critiche che mettono in dubbio il buon gusto o proprio la legittimità di molte cose, dai ristoranti d’ispirazione etnica alle scelte in fatto di moda e look.
I dizionari inglesi e americani hanno inserito l’espressione solo l’anno scorso e la definizione che ne danno è più o meno la seguente:
L’appropriazione culturale è l’adozione non riconosciuta o inappropriata delle abitudini, pratiche, idee, ecc. di un popolo o società da parte di membri di un altro, in genere più dominante.
In poche parole si ha appropriazione culturale quando qualcuno adotta qualcosa da una cultura che non è la sua: un’acconciatura, un capo di abbigliamento, un modo di parlare, persino un tipo di esercizio (di yoga, per esempio). Ma, a differenza dello scambio culturale – in cui c’è un dare e avere reciproco – l’appropriazione culturale si riferisce a una particolare dinamica di potere in cui i membri della cultura dominante prendono elementi da una cultura oppressa. Infatti l’espressione ha iniziato a essere usata soprattutto dalle popolazioni indigene delle nazioni che hanno alle spalle una storia di colonizzazione, come il Canada, l’Australia e gli Stati Uniti.
Per capire bene di cosa si parla quando si parla di appropriazione culturale c’è bisogno di fare attenzione e contestualizzare a dovere, perché è chiaro che il fatto di metabolizzare aspetti di un’altra cultura non può essere considerato, di per sé, sempre e comunque un male. Anzi. Il problema sorge quando qualcuno prende qualcosa da un’altra cultura con una storia di discriminazione – da una minoranza – in un un modo che i membri di quella cultura trovano indesiderabile oppure offensivo.
Uno degli esempi più comuni di appropriazione culturale è il prestito dell’iconografia, dell’arte o dei simboli di una cultura che non contempla la loro reale profondità. È possibile osservare molti esempi nell’ambiente sportivo nord-americano: i loghi, le mascottes e perfino i nomi di certe squadre sono tratti direttamente dalla cultura nativa americana. Un altro esempio è dato dall’esplosione dell’industria del tatuaggio, che ha comportato molteplici tendenze nell’utilizzo di elementi culturalmente carichi di significato: i simboli tribali polinesiani, l’arte celtica, i simboli cinesi o ancora l’iconografia cristiana. L’iconografia in questione è spesso svuotata del suo significato culturale e usata per ragioni puramente estetiche.
Il punto essenziale per chi crede che l’appropriazione culturale sia sbagliata è che il gruppo più emarginato non ha voce in capitolo mentre il suo patrimonio viene usato da qualcuno che si trova in una posizione di maggiore privilegio per divertimento oppure perché di moda, e senza l’adeguata conoscenza di quella cultura. Indossare dei mala – i rosari indiani – senza essere induisti o buddisti, oppure far sfilare in passerella modelle bianche con i capelli raccolti in treccine, secondo la dottoressa Adrienne Keene di Native Appropriations è “attingere a stereotipi per fingere di essere di una cultura a cui non si appartiene”.
C’è però chi si chiede: ma la dinamica non funziona anche al contrario? Ovvero: non capita forse anche che elementi tipicamente occidentali vengano copiati da persone afro o asiatiche? Sì, succede, ma di solito il senso del fenomeno è diverso. Spesso infatti una cultura più emarginata adotterà aspetti più forti per adattarsi, non per risaltare. Un esempio tipico è quello dei capelli della donne afroamericane. Le donne nere spesso dicono di non sentirsi a loro agio nel lasciare i loro capelli allo stato naturale. La BBC cita casi di donne alle quali il datore di lavoro ha messo in chiaro che risultano “poco professionali”. Alcune dicono di spendere molto tempo e molto denaro per renderli più simili ai “capelli bianchi”, e la sensazione è che si sentano in qualche modo tenute a farlo. Gli esperti chiariscono che si tratta di uno squilibrio delle dinamiche di potere: le donne di colore in questo caso non stanno adottando elementi di un’altra cultura per divertimento o per scelta, ma per evitare discriminazioni da parte del gruppo più forte.
Una serie di recenti controversie mediatiche ha richiamato l’attenzione sull’appropriazione culturale: si va da bianchi criticati perché sfoggiano i copricapi dei nativi americani ai festival musicali, alle critiche rivolte alla diffusa commercializzazione dello yoga (che in India era stato bandito dal dominio britannico). Ma anche lo show business offre ovviamente molti esempi.
Katy Perry ha ricevuto dure critiche, nel 2014, a causa della tenuta da geisha sfoggiata durante un concerto, e sempre lei, nell’aprile 2017, ne ha ricevute altre per aver postato un’immagine della dea Kali sul suo account Instagram (e anche in ragione della sua nuova pettinatura). La cantante Demi Lovato si è vista invece accusata di appropriazione culturale per essersi pettinata con i dreadlocks.
Il mese scorso la cantante israeliana Netta Barzilai, vincitrice dell’Eurovision, è stata presa di mira sui social perché il suo look alla manifestazione canora – un kimono rivisitato con stampe contemporanee – e l’uso di dozzine di tradizionali gatti in ceramica, sono stati visti da alcuni come delle appropriazioni poco rispettose della cultura giapponese.
All’inizio di quest’anno invece Spotify ha pubblicato un annuncio in cui si definiva Justin Bieber “Latin King”, il re latino, in riferimento alla sua fortunata collaborazione per la hit Despacito, che ha portato la canzone ai vertici delle classifiche musicali in tutto il mondo. Come hanno sottolineato i critici il cantante canadese non parla spagnolo e durante un’esibizione ha detto qualcosa del tipo: “Non conosco le parole quindi dirò semplicemente Dorito” (che è una marca di tortillas).
C’è chi però sostiene che tutto ciò non sia sano e non faccia bene al dialogo tra le culture. Secondo il sito soranews24.com, che diffonde le notizie giapponesi per il pubblico di lingua inglese, la risposta prevalente degli spettatori giapponesi al caso dell’Eurovision è stata di confusione. Il sito citava dagli account dei social media giapponesi commenti del tipo: “La cultura è destinata ad essere rubata. Se non vale la pena rubare, allora non è cultura”, “Se le persone continuano a parlare di ‘appropriazione culturale’, allora le persone non toccheranno la nostra cultura. Quindi, le persone non capiranno la nostra cultura e sarà più facile diventare nostri nemici”, ma anche dei lapidari: “Gli occidentali si preoccupano troppo per cose stupide”. Può capitare insomma di trovarsi di fronte al paradosso per cui i diretti interessati in realtà non sono per niente infastiditi da ciò che viene tacciato di essere appropriazione.
Arthur Krystal su LA Review of Books scrive che non possiamo iniziare a limitare l’espressione artistica solo a causa del background di qualcuno: “Che cosa mi importa della tua etnia o del tuo background fintanto che rendi giustizia a ciò che è successo?”, scrive. “Non è basta l’appartenenza culturale per rende giustizia all’ingiustizia, per creare arte dall’esperienza umana. È l’arte che dà vita a una rappresentazione della vita. E questo ha tanto a che fare con il colore della tua pelle quanto il numero di stelle nel cielo”.
Si potrebbe riconoscere che, alla fin fine, contano soprattutto le intenzioni. E se l’intenzione è creativa o autenticamente culturale, più che di “appropriazione” sembrerebbe giusto parlare di ispirazione o contaminazione. Anche se bisogna ammettere che, in alcuni casi, lo spostamento da una cultura all’altra può nobilitare – e rendere remunerativo – qualcosa che finché stava nella cultura originaria era visto in modo negativo o comunque poco interessante. Che la cultura occidentale si arricchisca speculando su elementi presi dalle culture e dalla popolazioni non occidentali è un dato di fatto abbastanza evidente e certo non nuovo, ma parlarne qui significherebbe aprire un capitolo sulla natura e sui vizi del capitalismo, e il discorso si allargherebbe troppo.
Per quel che interessa a noi diciamo che le intenzioni e la credibilità dell’operazione artistica o creativa sono il punto fondamentale. Se il riferimento alle altre culture è fatto con onestà e rispetto – e magari inserendo i dovuti credits e esplicitando la fonte originaria – il tutto può comunque essere un modo per favorire quelle sovrapposizioni e quelle intersezioni tra popoli di cui abbiamo ancora così tanto bisogno.
Source: freedamedia.it
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