Dicono che inquini, per questo qui non c’è più lavoro”. Sta riparando il tetto di una casa l’ex minatore che incontriamo a Scio, poco distante da Cadiz, che non è la Cadice di Spagna ma quella dell’Ohio profondo, cuore di quell’America che di lì a poco porterà Donald J. Trump alla Casa Bianca. Di Scio, piccolissimo villaggio nel cuore della cosiddetta Coal county, la zona più ricca di carbone dello Stato, è un altro minatore, quello che ha prestato il suo volto e la sua storia a uno degli spot per la campagna elettorale del milionario che voleva farsi presidente, riuscendoci. Le miniere di carbone (quello che “dicono” inquini) sono state messe fuori gioco dal mercato, dove il gas da scisto sta diventando sempre più popolare, ma anche dai provvedimenti di Obama nell’ultima fase della sua presidenza: il Clean power plan e la firma dell’accordo di Parigi sul clima. Sui minatori e sul carbone, nell’estate rovente della campagna elettorale, era scivolata Hillary Clinton, che in un comizio proprio in Ohio si rallegra della chiusura degli impianti estrattivi.
A poco servono la retromarcia e le scuse, il fianco è esposto e Trump coglie l’occasione per promettere un futuro per l’inquinante combustibile fossile. Del resto, l’avventura di Donald J. Trump può essere iscritta in un quadro non solo liberista – dove tutte le limitazioni di sorta all’impresa sono costi di troppo e quindi vanno tagliate – ma anche negazionista rispetto al cambiamento climatico. Nei diversi sondaggi che il comitato del presidente lancerà tra la vittoria elettorale e l’insediamento, chiedendo agli elettori di stabilire le priorità dei primi 100 giorni alla Casa Bianca, le domande di tema ambientale sono inequivocabili: “eliminare le restrizioni sulle trivellazioni in alto mare”; “eliminare le restrizioni che impediscono lo sfruttamento di 50 trilioni di dollari di energia americana, compresi petrolio, gas, scisto e carbone pulito”; “cancellare miliardi di dollari di versamenti al programma sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite e usarli per risistemare il nostro paese”. Alla vigilia della cerimonia di insediamento – The presidential inauguration – le tv di Washington sono sommerse da spot anti Trump, o meglio da uno spot che mette nel mirino Scott Pruitt, personaggio noto per il suo negazionismo sul cambiamento climatico, molto vicino alle grandi compagnie petrolifere e che da procuratore dell’Oklahoma ha fatto causa all’Epa, l’agenzia per la protezione dell’ambiente che ora Donald J. Trump gli chiede di presiedere in qualità di ministro all’Ecologia; il segno che il neopresidente vuole cancellare l’eredità politica di Obama in quanto a regolamentazione ambientale. A poco serve la smentita delle sue opinioni (e di conseguenza di quelle del presidente) che Pruitt è stato costretto a fare – pressato dalle domande dei parlamentari – durante la seduta per la conferma della sua nomina. Se ha finalmente ammesso che il cambiamento climatico esiste, il percorso di Pruitt da ministro si presenta quanto meno problematico e contraddittorio. Si troverà nella paradossale situazione di autoricusarsi quando da capo dell’Epa dovrà decidere sui procedimenti contro le norme sull’inquinamento da carbone e sul trattamento delle acque reflue industriali, ricorsi contro l’agenzia che lui stesso ha avviato come procuratore dell’Oklahoma.
Se Obama ha fatto dei passi in avanti sul fronte della regolamentazione ambientale nel paese che è il più grande inquinatore del mondo (per esempio l’accordo con la Fiat sulla Chrysler nacque proprio grazie all’esperienza italiana su motori compatti e più efficienti di quelli prodotti dalle industrie americane), i suoi progressi non vanno però idealizzati come si tende a fare rispetto a una presidenza segnata da incertezze, tentennamenti e difficili rapporti con il Parlamento, che sull’ambiente ha dato un colpo di coda solo alla fine dei suoi otto anni. Obama non è riuscito – e non era di certo facile – a cambiare il contesto culturale di un’America dove quello a un’energia a basso costo e facilmente disponibile è considerato un diritto, un pilastro dell’economia per la quale lo Stato deve creare le condizioni di prosperare a cominciare appunto dal carburante che alimenta la produzione, si tratti di elettricità o benzina. In un mercato e in un contesto culturale del genere ogni regolamentazione ambientale, esattamente come la riforma sanitaria “Obama care”, è una zavorra sui conti delle aziende e un limite alla libertà dell’individuo. Trump porta questa linea di pensiero all’estremo, con l’aggiunta di quel bagaglio di credenze e pregiudizi che colpiscono persino l’evidenza dell’incremento ormai costante delle temperature e sfociano nel sottobosco delle “teorie del complotto”. Che si riesca o meno a sostituire il sistema Emission trading con una carbon tax, come vorrebbero alcuni repubblicani e la Exxon, ma non Trump che invece vuole liberarsi di ogni genere di gravami per le imprese, anche per l’ambiente – come per i diritti civili – si preannunciano tempi duri negli Stati Uniti, dove l’agenda politica è ormai segnata dalla nostalgia degli anni ‘50, quando l’industria prosperava, i consumi interni crescevano, le auto erano fatte solo di metallo e pesavano tonnellate, l’inquinamento era una parola ancora sconosciuta.
Source: lanuovaecologia.it
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