È critica la posizione di José Graziano Da Silva, Direttore Generale della FAO, sui limiti della rivoluzione “verde” agrochimica. “Occorre promuovere un cambiamento trasformativo nel modo in cui produciamo e consumiamo cibo. Dobbiamo proporre sistemi alimentari sostenibili che offrano cibo sano e nutriente, e servizi eco-sistemici resistenti al cambiamento climatico. L’agro-ecologia può offrire diversi contributi a questo processo di trasformazione dei nostri sistemi alimentari”, ha affermato Da Silva nell’intervento di apertura al 2° Simposio Internazionale di Agro-ecologia, tenutosi a Roma il 3 aprile presso la FAO.
Sfamare il pianeta, dare dignità all’essere umano e preservare l’ambiente, questi gli obiettivi emersi dal dibattito pubblico, in uno scenario ecologico, che sempre più preoccupa gli scienziati per lo stato di salute della terra, e che si sta rivelando come una vera e propria catastrofe umanitaria, a danno innanzitutto dei più deboli e delle periferie del pianeta.
La così detta rivoluzione “verde” degli anni settanta, oggi aspramente criticata, aveva puntato a nutrire il pianeta con l’introduzione di una tecnocrazia agraria produttivista, destinata al fallimento, perché segnata almeno da tre magagne ineludibili: l’illusione che il potere della tecnica sia in sé risolutivo, un’economia della competizione e dello scarto, la mancanza di un movimento popolare agricolo a guida dei cambiamenti.
Nonostante i numerosi segnali di una crisi umanitaria, la politica agroalimentare ha continuato a seguire la stessa ricetta, in direzione di un’agricoltura insostenibile, con tecniche sempre più sofisticate ed energeticamente costose, fino a trasformare la soluzione in un problema.
La “rivoluzione verde” non ha risolto la fame che piega oggi centinaia di milioni di esseri umani. Anzi, la popolazione a rischio è aumentata di trentotto milioni dal 2016. La Fao lancia dunque il suo alto monito. Con le attuali conoscenze agricole, declinate in un nuovo modello, sarebbe possibile sfamare le moltitudini di esseri umani a rischio d’inedia. La sfida non è solamente tecnica, occorre anche riconoscere la natura sociale e non meramente economico-produttiva dell’agricoltura e conquistare la resilienza necessaria per i futuri cambiamenti ambientali e sociali.
Bene quindi puntare all’agroecologia, ma bisogna riconoscerne anche la natura contadina, solidale con tutti gli agricoltori. Diversamente rischieremmo di trasformare anch’essa in mero esercizio accademico, o peggio in orpello di un sistema invariato.
Bisogna quindi mettersi al lavoro per conoscere e riunire i movimenti popolari che dalle periferie del globo stanno operando per un’agricoltura rispettosa e sostenibile.
Proprio l’umile periferia terrestre, il suolo fertile con gli esseri microscopici che lo abitano, è la reale ricchezza del pianeta.
Occorre dunque sostenere le realtà agricole individuali e libere, le comunità del cibo, che uniscono contadini e cittadini per cancellare, partendo anche dalle prossime politiche agroalimentari, la distanza sempre maggiore tra élite privilegiata e mondo della disperazione.
Source: suoloesalute.it
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