Smemoranda compie 40 anni. Vi sentite già nostalgiche, vero?
È nata a Milano nel 1979 (in realtà esisteva in un’altra forma da un po’ prima), ma ognuna di noi l’ha conosciuta in un luogo diverso, in un anno diverso, di solito in adolescenza. La nostra, o quella degli altri.
Sì perché io, per esempio, l’ho vista per la prima volta in mano alla mia zia più giovane, che quando ero bambina faceva le superiori. Per lei “la Smemo”, come la chiamava, era un oggetto caro, addirittura intimo, tant’è che continuò a comprarla anno dopo anno anche una volta finita la scuola, e io continuavo a vederla, anno dopo anno, accumularsi nel suo armadio dove andavo a prendere le Barbie.
Due cose mi affascinavano, delle Smemo. La prima, ovviamente, era la dimensione. E non intendo soltanto il formato, ma l’avevate capito, no? Intendo la dimensione che assumevano man mano che mia zia, come tutti i suoi coetanei, la riempiva di roba. Tovaglioli dei bar, scontrini, incarti di caramelle, ritagli di riviste, adesivi (di solito del Cioè), graffette, lacci intrecciati, lettere delle amiche scritte in colori fluo e ripiegate…mi sembrava che dentro una Smemo potesse starci di tutto, contenuti compresi.
E questa era la seconda cosa che mi affascinava: la sua aura di maturità. Fa sorridere detto a trent’anni, però è così. La Smemoranda era “il diario per i grandi”, come diceva mia madre sfilandomela di mano, e non capiva che io volevo leggerla proprio per questo. Su una Smemo si parlava degli scazzi quotidiani di qualunque adolescente, ma anche di amore, di sesso sicuro, di AIDS. Tutti temi che ancora oggi facciamo fatica a trattare davanti agli adolescenti, quando il realtà dovremmo farlo di più e di più. La Smemo, per fortuna, lo faceva.
Lo faceva anche ai miei tempi, quando finalmente ho potuto comprarne la mia prima edizione, tutta rossa. La prima cosa da fare fu personalizzarla. Per questo, un Uniposca era indispensabile. Io non so se sia così anche oggi, ma tra la fine degli anni 90 e all’inizio dei 10, se non avevi un Uniposca da sbatacchiare prima di usarlo e intossicare due file di banchi più in là col suo odore fortissimo, non eri nessuno. Anzi, possiamo dirlo meglio, eri disarmata. L’Uniposca era la spada, la Smemo lo scudo. E lo era davvero, visto quante volte ti parava e chiappe coi suoi bigliettini, che andavano bene per tutto: copiare il compito, sfogarti contro la prof, dichiararti a qualcuno. Strappa un bigliettino rettangolare dalle ultime pagine, e passa la paura.
Dopo i primi tocchi, che rendevano la Smemo mia e di nessun altro (difficile confodersi, va detto: dove le mie compagne avevano celebrità reali, io le avevo disegnate o pixellate), si andava all’ingrasso. Finché mio padre non mi diceva di smetterla, che mi sarebbe venuto il mal di schiena a portarmi quel mattone nello zaino, sapevo di non aver fatto abbastanza.
Sono un’adulta che soffre di mal di schiena, in effetti. Forse è colpa anche delle mie Smemo. Io però le ho conservate tutte, e in cambio loro conservano per me quegli anni, come scrigni in cui c’è tutto quello che altrimenti avrei dimenticato. Non i grandi eventi, quelli restano comunque, ma le cose piccole che non sapevo fossero preziose. Lo scontrino del mio primo lettore CD, l’incarto del Chupa Chupa con la gomma da masticare dentro, il biglietto sbiadito di The Blair Witch Project visto al cinema del mio paese, oggi chiuso da anni, un foglio a quadretti lanciatomi da un’amica alla quale non ripenso mai, ma che mi aveva scritto “ti voglio bene”.
Viene voglia di ricominciare ad avere una Smemo, no? Forse dovremmo.
Source: freedamedia.it
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