Qualche settimana fa sono finalmente riuscita a visitare la nuova sede della Fondazione Prada, l’Osservatorio, uno spazio espositivo molto bello, interamente dedicato alla fotografia, in cui, ancora per pochi giorni, potete vedere la mostra Give me Yesterday. Non che io capisca granché di fotografia, ma mentre camminavo e guardavo queste fotografie appese alle pareti, mi sembrava tutto bellissimo. Un’opera in particolare però mi ha colpito, per titolo e contenuto. Si chiama Thank You for Hurting Me I Really Needed It ed è Melanie Bonajo, una giovane artista olandese. L’opera è composta da una serie di selfie che Melanie si è scattata ogni volta che ha pianto tra 2001 e il 2011. Sul foglio che descrive l’opera si legge che per realizzarla l’artista “a un gesto istintivo e incontrollato ha contrapposto una rigorosa disciplina”. Le immagini sono in tutto 60. Posto che, chiaramente, quei 60 scatti saranno il risultato di una selezione, la mia prima reazione quando li ho visti è stata pensare: “però, ti è andata bene Melanie, perché hai pianto veramente pochissimo”.
Io piango un sacco e piango per diversi motivi: perché mi arrabbio, perché sono triste, perché mi prende la malinconia e piango sempre quando guardo i provini di qualche talent show e qualcuno con una storia disastrosa alle spalle viene preso. Le storie di rivalsa personale mi fanno sempre piangere.
Perché piango così tanto? Luoghi comuni, condizionamenti culturali e studi scientifici a quanto pare rispondono a questa domanda nello stesso modo: piango molto perché sono una donna. Stando, ad esempio, a uno studio condotto nel 2009 dall’Associazione tedesca degli Oftalmologi, ho ragione a pensare che se Melanie Bonajo ha pianto 60 volte in dieci anni è stata molto fortunata. Secondo questa ricerca, infatti, fino ai 13 anni piangiamo tutti nello stesso modo, mentre dai 13 anni in poi si crea una differenza di genere: le donne piangono ogni sei giorni, quindi circa 64 volte all’anno, mentre gli uomini piangono una volta ogni 22 giorni, quindi al massimo 17 volte all’anno.
Dato che lacrime sono uno dei più celebri simboli della presunta debolezza / fragilità / vulnerabilità femminile, nonché fonte di frasi come “hai le mestruazioni per caso?” o “smettila di fare la bambina di due anni” ho deciso di fare una ricerca sul nostro pianto per capirci qualcosa di più. Questo è quello che ho scoperto.
La lacrima è una struttura liquida che ricopre l’occhio, con l’obiettivo di lubrificarlo, pulirlo, difenderlo e migliorare la nostra visione. Da un punto di vista chimico è composta al 98% di acqua e per il restante 2% di elettroliti, proteine e glucosio.
Questo tipo di lacrima è presente nella maggior parte degli esseri viventi. La lacrimazione per ragioni non meramente fisiologiche, cioè quella che interessa a noi, connessa alle emozioni, è invece un comportamento unicamente umano, con un preciso senso evoluzionistico. Fino a qualche tempo fa si pensava che fossimo in grado di produrre queste lacrime per aumentare al nostra comunicatività da neonati, per smaltire lo stress o semplicemente per sentirci meglio. Oren Hasson, biologo evoluzionista, dell’Università di Tel Aviv però non la pensa così. Nel suo studio sulla funzione delle lacrime come “segnali biologici”, sostiene infatti che le lacrime siano un comportamento altamente evolutivo, finalizzato a costruire relazioni forti, basate sull’empatia, e a inibire l’aggressività di un potenziale nemico mostrando la propria vulnerabilità.
Che esista una differenza tra uomini e donne in materia di lacrime l’abbiamo chiarito fin dall’inizio. Il problema è capire perché le donne piangono tra le 3 e le 5 volte al mese, mentre gli uomini, quando va bene, piangono una volta al mese. Esistono numerosi studi su questo argomento, al punto che si è perfino parlato di una “scienza delle lacrime”. Ad Vingerhoets, docente di scienze comportamentali all’Università di Tilburg, e grande studioso delle lacrime, sostiene che uomini e donne piangono per le stesse ragioni: per la morte di una persona amata, per una rottura sentimentale o perché si sentono depressi.
La differenza sta invece nelle piccole cause: le donne piangono anche per quelle, mentre gli uomini no. Bisogna però notare che gli studi scientifici che cercano di “misurare” questa differenza si sviluppano a partire da dati basati su testimonianze. Uno degli studi condotti da Vingerhoets e colleghi, raccolto nel libro Emotional Expression and Health, analizza ad esempio la differenza tra lacrime femminili e lacrime maschili in Olanda, partendo da un avvenimento in particolare: la semifinale dei Mondiali di calcio del 1998 e la sconfitta dell’Olanda. Secondo i dati in questa occasione pianse il 20% delle donne contro l’8% di uomini, o almeno questa è la percentuale di uomini che ha ammesso di aver pianto.
Dicevo uno degli studi condotti da Vingerhoets e colleghi, perché il test è composto da un una serie di analisi, svolte in contesti culturali e locali diversi, per capire più a fondo questa particolare differenza di genere. A partire dai risultati ottenuti, si è osservato che dipende da diversi fattori.
Tanto per iniziare il lavoro svolto dai soggetti analizzati incide sul pianto: la percentuale di donne che ricopre posizioni infermieristiche, ad esempio, è decisamente superiore rispetto a quella maschile, e un lavoro di questo genere comporta esperienze emotivamente intense. Gli uomini invece dominano nell’area tecnologica o ingegneristica, che si accompagna a esperienze meno emotive.
Un elemento che determina l’ampiezza di questa differenza è poi quello locale, e quindi culturale. In alcuni paesi con un livello di libertà di espressione e integrazione sociale maggiore, le donne piangono molto più degli uomini (vedi gli Stati Uniti o la Svezia, ad esempio), mentre in altri paesi in cui si vive in cui c’è meno libertà espressiva, questa differenza diventa minimale (in Nigeria o in Nepal ad esempio), perché in generale il pianto è concepito come un segno di debolezza.
Torniamo però un attimo indietro al primo studio che avevo citato, quello svolto dall’Associazione tedesca degli Oftalmologi. Quello studio diceva che fino ai 13 anni la differenza tra lacrime maschili e lacrime femminili non si nota, perché le donne piangono tanto quanto gli uomini. E, per quanto questo aspetto abbia certamente a che vedere con lo sviluppo ormonale e biologico, è evidente che ha anche molto a che vedere con il condizionamento sociale e culturale, con il modo in cui veniamo cresciuti, con ciò che ci viene detto (verbalmente o no) di fare o non fare. Ha a che fare cioè con gli stereotipi di genere, i cui effetti a 13 anni sono in parte compiuti.
Infine, un altro fattore importante è quello biologico, e in particolare ormonale. Come testimonia uno studio del 2012 le donne hanno circa il 60% di prolattina in più rispetto agli uomini; la prolattina, ormone che consente anche la produzione del latte materno, rende particolarmente emotivi. Al contrario il testosterone, presente in percentuali maggiori negli uomini, ostacola molto il pianto. Si è osservato ad esempio che quando si trovano sotto cure particolari che possono ridurre i livelli di testosterone, gli uomini piangono più facilmente.
Quando Hillary Clinton ha perso le elezioni, su Refinery29 è uscito un articolo molto bello su tutte le donne che hanno pianto in quel momento, sul fatto che chissenefrega se il pianto è una cosa “da femmine”, perché in realtà se per “cosa da femmine” si intende che è una cosa da persona deboli, non è vero. Oltre a essere una reazione sana al bisogno di smaltire lo stress, il pianto, come abbiamo visto, è un comportamento evolutivamente elevato e, purtroppo per tutti gli accaniti sostenitori del concetto tradizionale di forza, ciò che rende elevato questo comportamento è proprio la vulnerabilità, che permette di empatizzare con chi ci sta di fronte e di costruire relazioni profonde. Senza contare che per mostrarsi vulnerabili ci vogliono forza e coraggio. Quindi, ecco, se il pianto è una cosa da femmine siamo fortunate ad esserlo.
Source: freedamedia.it
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