A cura di ENRICO FONTANA e FRANCESCO LOIACONO
Insieme per una nuova cultura del cibo, che sia leva di un cambiamento profondo del sistema economico. È questa, in sintesi, la traccia di lavoro intorno a cui hanno ragionato insieme Rossella Muroni, presidente nazionale di Legambiente, Lucio Cavazzoni, presidente di Alce Neo, e Carlo Petrini, fondatore di Slow food e presidente di “Campagna amica”.
Partiamo da una premessa: perché Legambiente ha deciso di rilanciare il suo impegno nell’agricoltura?
Io credo che abbia senso occuparsi di agricoltura per un’associazione come Legambiente, ma in generale per l’ambientalismo italiano, perché l’agricoltura ha in sé una capacità di cambiamento tutta moderna, a tratti potenzialmente rivoluzionaria, e però è anche il luogo in cui misuriamo le contraddizioni più forti, forse anche più evidenti rispetto alla partecipazione dei cittadini. Mi riferisco al tema dell’alimentazione, della sua qualità. Allora per me è fondamentale raccontare innanzitutto una dimensione sociale dell’agricoltura e vedo con grande speranza il cosiddetto “ritorno alla terra” dei giovani. Secondo me più che di ritorno alla terra bisognerebbe chiamarlo “salto nel futuro”, perché i giovani tornano all’agricoltura anche con competenze e idee nuove. L’altra ragione per cui Legambiente deve occuparsi di agricoltura si può sintetizzare così: l’agricoltura è ambiente. C’è una questione molto forte sull’impatto dell’agricoltura, ad esempio sui cambiamenti climatici, ma noi sappiamo che l’agricoltura potrebbe sempre dare risposte importanti e positive. A me sembra che gli agricoltori siano lasciati assolutamente soli nell’affrontare il dramma dei mutamenti climatici e degli impatti sulle colture. Faccio un esempio: Legambiente pubblica da anni un dossier sui pesticidi, contestato dalle associazioni di categoria perché sarebbe sbagliato dire che ci sono troppi pesticidi nel cibo prodotto in Italia. Nessuno si pone il problema, come chiediamo da anni, di regolamentare il multi residuo. Così, seppure nei limiti di legge, cresce tantissimo l’utilizzo dei pesticidi. E questo sta portando a un mercato nero di sostanze chimiche in agricoltura. Per tutte queste ragioni è fondamentale fare cultura, spiegare agli italiani perché il cibo che costa poco fa male a noi, all’ambiente e al sistema agricolo.
Giriamo la questione a Lucio Cavazzoni: perché questa nuova relazione con l’ambientalismo italiano può essere positiva? Che vi aspettate e cosa chiedete di nuovo rispetto al passato?
Io mi aspetto molto. Ma vorrei partire da un episodio che mi ha veramente colpito: fuori da un nostro locale a Bologna, che fa cibo con il biologico, abbiamo avuto una manifestazione molto antipatica da parte di un centro sociale che ci ha urlato: “fate cibo per i ricchi e non pensate a chi non ha le risorse”. L’anno prossimo sono quarant’anni che faccio questo mestiere ed è la prima volta che abbiamo avuto una contestazione di questo tipo. Si tratta di un problema molto grande per noi che abbiamo consapevolezza di quanto costi fare cibo vero e di quanto siamo lontani da chi non se lo può permettere. Io credo che agricoltura e ambiente siano la stessa cosa. La modalità di condurre la propria azienda, il proprio piccolo o grande appezzamento di terra rappresenta per l’agricoltore sempre il suo modo di rapportarsi al mondo. Apro una parentesi: ho saputo quindici giorni fa che in Francia quella agricola è stata riconosciuta come un’attività a rischio. E quindi gli agricoltori francesi hanno ottenuto la pensionabilità con cinque anni di anticipo. Impressionante ma realistico se pensiamo all’abuso di pesticidi e alle conseguenze sulla salute, innanzitutto di chi li utilizza. La relazione con i movimenti ambientalisti è per noi importante perché l’obiettivo fondamentale di chi fa biologico non è soltanto quello di produrre cibo ma la trasformazione sociale ed ecologica di quello che ha attorno. Non a caso quest’anno come Alce Nero abbiamo inserito per i nostri agricoltori una premialità sul prezzo per la tutela della biodiversità, a prescindere dal prodotto. Nei giovani tutti questi elementi sono importanti. Si sentono molto più cibo-cultori che agricoltori. Non hanno in mente i consorzi agrari per collocare i loro prodotti, i grandi centri di stoccaggio, neanche le grandi cooperative, ma la relazione diretta con chi acquista i loro prodotti. Qui subentra la grande sfida di come riuscire a costruire reti sostenibili di queste agricolture. Anche perché la crisi della grande distribuzione si sta accanendo sui produttori piccoli e medi.
Che difetti ha avuto finora l’ambientalismo? E davvero l’agricoltura di qualità, rispettosa dell’ambiente è solo per ricchi?
Alla prima domanda rispondo con un modo di dire delle Langhe: “Ci avete messo tanto, avete mangiato più di sette fette per capire che era polenta”. Voglio dire: pensare a un ambientalismo senza il cibo e senza l’agricoltura è da stupidi. Mi ricordo che quando è nato Slow Food, un prestigioso dirigente di Legambiente mi disse: “bravo Carlin, impegnati”. E poi mi disse dove comprava da mangiare. Acquistava della ciofeca, rendendosi complice di un cibo vergognoso. Però era una logica che non gli interessava, perché l’ambientalismo era un’altra cosa. Quindi ritengo che questo vostro approdo, ancorché leggermente tardivo, sia giusto e sacrosanto. Non vorrei, però, che arriviate ancora una volta in ritardo. Mi spiego: ho preparato un documento con Olivier De Schutter, che era il responsabile delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, inviato a tutti i parlamentari europei e a tutti i giornali. Se ne sta discutendo molto in questo momento perché la riforma della Pac (Politica agricola comunitaria, ndr) non sia strettamente agricola ma prenda in considerazione l’alimentazione. Questa logica riduzionista per cui ci mettiamo un vestito ambientalista, poi ci allarghiamo all’agricoltura, poi dopo c’è addirittura quella che Lucio chiamava “cibologia” è sbagliata, perché tutto è connesso. Secondo me la nuova frontiera è un ambientalismo dello spirito. L’ho trovata esplicitata in maniera brillante e straordinaria nella Laudato si’ di Papa Francesco. Questa connessione, che lui chiama ecologia integrale, tra ambiente, cibo e umanità è fondamentale. Quindi, anche il discorso della fame nel mondo o del cibo per ricchi non è fuori dal nostro pensiero. E qui inizia il diffi cile. Perché noi siamo convinti che uno degli elementi distintivi di questa fase storica è che il cibo ha perso valorialità, ormai si parla solo di prezzo. E questo può portarti verso un rivendicazionismo di un prezzo basso, che distrugge l’ambiente e la salute delle persone.
Secondo l’ultimo rapporto Svimez-Ismea, nel Sud sono nate oltre ventimila nuove imprese agricole e il valore delle produzioni è cresciuto del 7,3%, contro l’1,6 del Centronord. C’è un Mezzogiorno che guarda all’agricoltura e ci scommette. Come si sfrutta al massimo questa disponibilità? Cresce lo scarto tra il fatturato italiano nelle fi liere agroalimentari (57 miliardi di euro, + 5% in un anno) e i redditi degli agricoltori, che hanno perso l’8%. Come si può intervenire?
La mia preoccupazione rispetto alla crescita dell’agricoltura nel Mezzogiorno è che sia solo numerica. Il rapporto Svimez andrebbe approfondito anche rispetto alla qualità di questa crescita, perché non è legata a politiche di sistema, di accompagnamento, di indirizzo delle attività agricole, come dimostra anche il crollo dei redditi degli agricoltori. In questo Paese due anni fa c’è stato l’Expo mondiale legato all’alimentazione: cosa è rimasto di questo evento, al di là delle strutture? Sono state fatte anche delle ottime leggi, penso a quella sul caporalato, ma non credo che l’agricoltura italiana abbia avuto da parte del governo un’idea di visione che la porti nel futuro. Anche io sono convinta che questa non è più l’epoca delle casacche. E quindi credo che noi dovremmo tenere insieme temi importanti come quello del consumo di suolo, della qualità dell’alimentazione che arriva per esempio nelle mense scolastiche dei nostri fi gli. Come mai cresce l’agricoltura nel Sud e contemporaneamente la qualità del cibo nelle mense scolastiche non migliora? Forse dovremmo avere un’ambizione, un sogno, un’utopia – le utopie sono state molto utili nelle evoluzioni delle società – in cui questi temi sono collegati e davvero ci sia un meccanismo trasparente, dal campo al piatto. Paradossalmente l’agricoltura è un’attività di terra, legata al suolo, ma spesso è anche molto lontana dal territorio. Tutto il tema del km zero e delle produzioni territoriali io lo vivo in questo senso: una ricaduta che va oltre il campo, una trasformazione sociale e positiva dell’attività agricola, soprattutto nel Mezzogiorno.
Mi concentro su tre questioni. Legambiente dovrebbe assumere un ruolo di partecipazione ai processi di cambiamento e trasformazione dell’attuale agricoltura. E sono perfettamente d’accordo sul fatto che le corporazioni devono finire. Carlo, nell’agricoltura siamo ancora tutti dentro le corporazioni, ognuna esclude l’altra. Io ne sono uscito dal mondo delle corporazioni, anche da quelle del biologico, che hanno le stesse negatività delle altre. Per quanto riguarda il Meridione vorrei che riflettessimo sul land grabbing italiano che sta prendendo piede insieme allo spopolamento delle nostre campagne e degli Appennini. Io che sono uomo di Appennino, dove ho fatto per tanti anni l’apicoltore, vedo ovunque un abbandono drammatico. Mi chiedo se non sia tempo di un’altra riforma agraria, che ridistribuisca terra, lavoro e valore in un progetto ambientale ed economico nuovo. Il problema dei giovani in agricoltura non è soltanto un tema da Psr (Piano di sviluppo rurale, ndr), una questione di attrezzature, di tecnologie e di mercati. Il problema è proprio quello di riavere la terra per un uso civile e sociale. Credo che la redditività a cui è arrivata la nostra agricoltura sia una cosa davvero meschina. E io faccio le mie battaglie al nostro interno: noi paghiamo più del doppio per le materie prime. Ma che cosa sono oggi 40 centesimi per un kg di grano? È un prezzo comunque venti volte inferiore rispetto a trent’anni fa. Un’altra questione si cui mi piace soffermarmi è la destinazione dei prodotti agricoli sani. Dobbiamo cambiare l’idea delle mense, far diventare il cibo e la sua preparazione una materia didattica fondamentale. Se pensiamo di risolvere tutto mandando materia prima biologica, aggiungo io di dubbia origine, ai grandi centri industriali di preparazione dei pasti per fare la stessa schifezza del giorno prima, in realtà non risolviamo niente. Sono convintissimo che presto il biologico diventerà una commodity banalizzata, perché non è più un elemento di cambiamento come lo è stato per tanti anni.
Tutto è collegato: cibo, agricoltura, salute, cultura, formazione del prezzo, informazione. E non sono d’accordo se Legambiente si interessa di agricoltura, Legambiente si deve interessare di tutto secondo me. E quindi diventare uno dei tanti soggetti per cambiare questa economia, che è un’economia che ci porta al disastro, che sta distruggendo le nostre vite, le campagne, le produzioni del cibo, nel Nord e nel Sud del mondo, perché ha dei paradigmi assolutamente insostenibili. Non c’è da stupirsi, in questo scenario, se i giovani tornano alla terra. Questi ritorni io li vedo anche come il frutto di una disperazione diffusa, quella di non trovare lavoro. Vengo alla questione dei redditi degli agricoltori e dei prezzi. I miei contadini delle Langhe quando portavano le uve al mercato di Alba partivano alle 4 del mattino con le bigonce piene. I commercianti arrivavano verso le nove, prendevano il caffè e chiedevano: quanto costano le uve? Ah, sono ancora care, aspettiamo un po’. E intanto l’uva fermentava e non poteva più tornare indietro. Alla fi ne c’era un modo di dire: i contadini si mettevano le mani dietro al culo. Cosa significava? Che quello che gli dava il commerciante andava bene. Cosa ha liberato quei contadini? Quando si sono messi a fare loro il vino. Ma questo non avviene per le melanzane, per le carote, le patate. Siamo a dei livelli impressionanti, dove il prezzo che si dà al contadino è bassissimo, quello che paghiamo noi cittadini si sa quant’è e in mezzo c’è chi taglia la fetta più grande della torta. Le nuove forme di distribuzione possano essere le risposta e anche per questo ho accettato di diventare presidente di “Campagna amica” di Coldiretti. Si tratta di 1.200 mercati gestiti dai contadini, che contribuiranno a far nascere 1.200 orti in Africa. Una goccia nell’acqua, ma è per far capire che quel continente è parte integrante della nostra vita. E quelli che muoiono nel mar Mediterraneo in massima parte sono contadini, giovani che non hanno futuro. È lo scotto che noi dobbiamo pagare rispetto alle ruberie che il nostro sistema ha realizzato in Africa. Le nuove forme di distribuzione, i mercati contadini, i mercati della terra, bypassano il sistema attuale per ridare potere alla classe contadina. Almeno di stabilire il suo prezzo, di avere la schiena dritta, di non subire vessazioni. Abbiamo bisogno di un’economia civile, un’economia di comunità, un’economia della natura, totalmente diversa da quella attuale. Lo dico a Legambiente e lo dico a Slow Food: dobbiamo smetterla di essere rivendicazionisti. Dobbiamo essere propositivi, avere idee per una nuova economia e una nuova società. Le tue angosce, Lucio, saranno moltiplicate, non diminuite, nella misura in cui non esiste una cultura del cibo ma solo show, pornografi a alimentare, come quella che ci pervade dal mattino alla sera in televisione. Quando ho accettato di fare il delegato della Fao l’ho fatto non perché voglio accumulare cariche, ma perché voglio dire a tutti che son finite le casacche, che dobbiamo cominciare a essere fraternamente colloquiali, costruire con il dialogo. Perché diversamente continueremo ad avere quell’atteggiamento riduzionista di dividere le cose che fa tanto comodo al potere politico. Tra poco scoppierà una bolla di proporzioni gigantesche che non immaginiamo neanche, che sta covando sotto la cenere: è la bolla di un cibo che ci sta uccidendo. Aumentano in maniera esponenziale le allergie, i celiaci sono già un milione in Italia. Tutto questo perché permettiamo che nel cibo ci sia di tutto e di più. Dobbiamo rivendicare più informazione. Diteci che cosa fate, come lavorate, come seminate. È questa la svolta propositiva: un cambiamento di una mentalità. E ci sta bene la logica a cui faceva riferimento Lucio: le mense nelle scuole devono essere un luogo di studio dei bambini. Abbiamo fatto mille orti scolastici: sono elementi di cultura.
C’è una questione cruciale nel post terremoto del Centro Italia: la sopravvivenza delle attività economiche, soprattutto quelle che hanno i giovani come protagonisti, a cui è dedicata la nostra la campagna “La rinascita ha il cuore giovane”. Cosa si può fare per rimettere in piedi in quei territori le comunità? Da dove si comincia?
Quello che preoccupa nell’affrontare il post terremoto da parte del governo è che si sta lavorando a compartimenti stagni rispetto ai temi e ai territori. Siamo di fronte sostanzialmente a quattro modelli: quello umbro, quello abruzzese, quello marchigiano e quello laziale. Con una situazione nelle Marche molto grave. E per questo che noi da subito, a proposito di circolarità delle questioni, abbiamo puntato al sostegno delle imprese agricole. Come diceva Petrini, anche fosse una goccia nel mare comprare il cagliatore a una giovane coppia che si è trovata senza gli operai nel caseificio c’è sembrato un modo concreto di aiutarli. Nel nostro piccolo, 100.000 euro in contributi li abbiamo distribuiti in questi mesi. Proprio per tenere conto di una capillarità e di una specificità, territorio per territorio, che è fondamentale. Accanto a questa azione abbiamo puntato sui beni culturali e stiamo partendo anche sul fronte della promozione turistica, perché quelli sono luoghi che rischiano di essere ricostruiti nel nulla. Sappiamo bene che il cemento non fa comunità, anzi spesso la distrugge. L’unica proposta che abbiamo fatto sulla ricostruzione è legata all’idea di creare opportunità di economia circolare, di riutilizzare le macerie, ma non è stata recepita. C’è una mancanza di visione complessiva e sono d’accordo che la cosa più rivoluzionaria da fare in questo momento è quella della proposta, perché spiazza tantissimo. Lo vedo anche nel nostro ambito: è molto comodo per il potere farti schiacciare nell’angolo del no, della protesta e della contestazione, perché ti rende innocuo. Divisi siamo molto innocui e io credo che procedere per temi e senza ragionare sul futuro delle comunità, a partire dalla produzione di cibo, sia assolutamente inutile.
Ho segnato tre cose che potrebbero diventare parte di un programma di azioni comuni verso un’economia fair e distribuita. Le piazze ritornino ad essere luoghi per i mercati dei contadini e dei produttori locali. Altro punto: gli agricoltori biologici siano parte attiva per il cambiamento, siano un elemento di prosperità per i territori. Noi dobbiamo lavorare nella direzione dei biodistretti, che mi piacerebbe chiamare ecobiodistretti per essere ancora più coinvolgenti. Ultima questione: la libertà dei semi. Siamo in una situazione sempre più aberrante, a partire dai semi degli ortaggi ma anche dei cereali, dei risi. Quella per la libertà dei semi è una battaglia culturale innanzitutto, perché è il primo elemento di dominio a cui siamo sottoposti. Sono d’accordo su tutte le cose che ha detto Carlo, ma dobbiamo anche pensare a una forma di organizzazione di tipo diverso, che non sia corporativa ma unisca in modo trasversale. Sono agricoltore da quarant’anni, sono amico delle organizzazioni e lo dico senza polemica: dobbiamo operare fuori dal recinto agricolo. Voglio garantire, infine, che per noi Amatrice è un obiettivo prioritario, stiamo lavorando e diamo tutta la nostra disponibilità per costruire anche lì un progetto di economia nuova.
La politica dei movimenti deve diventare una politica inclusiva. Fino adesso i movimenti e le associazioni hanno esasperato una politica distintiva e di per sé esclusivista. La sfida è così grande che l’inclusività è un obiettivo sistemico. Tra le priorità, la più importante è quella dei semi. È lì il vero problema: quando si vuole privatizzare la vita è la più grande violenza che si possa fare e noi su questo siamo una voce flebile. Seconda questione: il cambiamento di paradigma sul fronte di questa economia che uccide lo possiamo sperimentare e rendere operativo soltanto partendo dai territori. E non intendo da un punto di vista localistico: significa essere fortemente radicati, ma con una visione globale di fraternità universale. Quella da fare nelle zone terremotate, infine, è un’impresa ciclopica, perché enorme è lo sconquasso. Dobbiamo ricordarci che quelle comunità vivevano di un’economia agropastorale, che già soffriva le difficoltà di stare dentro al mercato. Per quel poco che possiamo fare, noi ci concentriamo sull’elemento della produzione agroalimentare di qualità, strettamente connessa al turismo e al rispetto dell’ambiente.
Source: lanuovaecologia.it
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