La storia di Sylvia Plath non è a lieto fine. Ciò non di meno – anzi, proprio per questo – deve essere raccontata.
Primo, perché è la storia di una delle più grandi poete del Novecento.
Secondo, perché è la storia di una donna calpestata dal suo tempo, il cui talento smisurato è però riuscito a evadere e a raggiungerci fino a qui, dove continua a brillare.
Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita
Ho incontrato Sylvia Plath in prima superiore, grazie alla citazione in calce al mio libro preferito di quella che avrei poi scoperto essere la sua poesia più celebre, Lady Lazarus
Morire
è un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale,Io lo faccio che sembra come inferno,
Io lo faccio che sembra reale,
Potreste dire che ho la vocazione.
Uscita postuma al suo suicidio a soli 31 anni, la raccolta di poesie Ariel – che oltre a Lady Lazarus conteneva altri lavori disperati e furiosi, di perfezione tecnica assoluta, come Elm e Daddy – venne minimizzata dalla critica come il risultato di un crescente desiderio di morte, quasi lo sfogo di una casalinga con del talento, ma poco carattere. Era l’America del 1963, e per una donna che desiderava essere presa sul serio come artista (o come professionista in generale) la strada era impervia e spietata.
Oggi Sylvia Plath è celebre per aver contribuito a elevare al livello successivo la poesia confessionale, e per tanto è difficile separare il suo lavoro dalla conoscenza – per quanto superficiale – della sua biografia.
Sylvia nasce il 27 ottobre 1932 a Boston, la madre Aurelia è americana di seconda generazione (di origini australiane), il padre Otto è tedesco. È una bambina dalla creatività precoce, già a 8 anni comincia a vincere premi di poesia locali e a 11 i suoi disegni vengono insigniti dello Scholastic Art & Writing Award, che si rivolge ai giovani più promettenti degli Stati Uniti (tra gli altri vincitori troviamo Truman Capote, Stephen King e Joyce Carol Oats). In questi stessi anni, però, Sylvia subisce il lutto che segnerà la sua vita personale e artistica: il padre muore, rifiutando le cure, per complicazioni dovute al diabete. Questo trauma mai del tutto superato echeggia nella sua intera produzione, e in particolare nella feroce Daddy:
Tu stai alla lavagna, papà,
nella foto che ho di te,
biforcuto nel mento anziché
nel piede, ma diavolo sempre,
sempre uomo nero checon un morso il cuore mi fende.
Avevo dieci anni che seppellirono te.
A venti cercai di morire
e tornare, tornare a te.
Sylvia ha una carriera scolastica brillante e nel 1953 viene scelta, insieme ad altre studentesse promettenti, per un tirocinio di un mese nella redazione della rivista Mademoiselle, che ha sede a New York. Parte piena di entusiasmo, come qualunque ventenne ambiziosa a cui viene data un’opportunità, ma a New York qualcosa dentro di lei si rompe. Inizia a scivolare, poi a precipitare in una spirale di disperazione, che culmina quella stessa estate in un tentativo di suicidio coi sonniferi. Da questa terribile esperienza prenderà poi vita il romanzo semi autobiografico La campana di vetro, ingiustamente dimenticato per decenni dalle liste dei grandi romanzi di formazione del nostro secolo.
A Sylvia viene diagnosticato un disturbo bipolare, che è trattato per sei mesi coi metodi d’urto in uso in quegli anni: iniezioni di insulina per indurre il coma, alternate a elettroshock. La violazione del corpo e della mente da parte dei medici sarà un altro dei temi portanti dei suoi lavori successivi.
Con forza impressionante, Sylvia si riprende, ricomincia a frequentare l’università e si laurea nel gennaio 1955 con il massimo dei voti, ottenendo così l’ingresso in uno dei due college femminili dell’Università di Cambridge.
È proprio in Inghilterra che incontra il suo futuro marito, il poeta inglese Ted Hughes. Su questo rapporto è stato detto tanto, si è parlato di passione, tormenti e anche di abusi, ma la verità è che i diari di Sylvia (che ha tenuto per tutta la vita) sono stati pubblicati postumi alla sua morte da Ted stesso, il quale ha ammesso di averne occultate alcune parti. Per tanto, non si conoscerà mai la verità. Quello che sappiamo per certo è che la vita da moglie degli anni Sessanta, in tutto e per tutto subordinata al marito, va strettissima a Sylvia. Se poi questo marito ha le tue stesse ambizioni artistiche, ma a differenza tua ha le possibilità di esprimerle, il carico aumenta. Nella poesia The Applicant, Sylvia esprimerà molto bene la sua idea del matrimonio come di una farsa interamente a carico della donna:
Vieni fuori, tesoro, esci dall’armadio.
Be’, che gliene pare?§
Nuda come un foglio di carta, per ora,ma tra venticinque anni sarà d’argento,
tra cinquanta, d’oro.
Una bambola viva, guardi pure dappertutto.
Sa cucire, cucinare,
sa parlare, parlare, parlare.
I due si spostano spesso tra America e Inghilterra, Sylvia lavora come insegnante e si occupa della casa, tutte cose che le rendono difficoltoso scrivere. Durante un seminario, però, incontra la poetessa Anne Sexton e le due si spronano a vicenda a comporre lavori di brutale onestà, che rispecchino una generazione di giovani donne che si sta svegliando e vuole essere ascoltata.
Nel 1960 Sylvia pubblica la raccolta The Colossus, che viene ben recensita, e dà alla luce Frieda, la sua prima figlia. Nel 1961 la sua seconda gravidanza termina in un aborto spontaneo, due giorni dopo che il marito l’ha picchiata. Nichols nasce l’anno successivo, durante il quale Sylvia tenta altre volte il suicidio nell’indifferenza del marito, dal quale infine divorzia dopo la scoperta di un suo ennesimo tradimento.
Pervasa come da un fuoco, Sylvia scrive alla fine del 1962 le ultime ventisei viscerali e straordinarie poesie della raccolta Ariel, che però non vedrà pubblicata. Sola, senza soldi né telefono in una casa così fredda che i due figli piccoli erano sempre malati (quell’inverno verrà ricordato come uno dei più freddi degli ultimi cent’anni), arriva al limite. L’11 febbraio 1963, dopo aver isolato col nastro adesivo e alcuni asciugamani la stanza dove dormono i suoi figli, si suicida inalando il monossido di carbonio dal forno.
Verrà sepolta come “Sylvia Plath Hughes”. In molti, negli anni, cercheranno di cancellare quest’ultimo cognome dalla lapide. Sarà la prima poetessa a ricevere postumo il premio Pulitzer, nel 1982.
La vita di Sylvia Plath finisce in modo tragico, ma non la sua opera, che risveglierà la coscienza di sé in migliaia di donne e le spronerà a battersi per i loro diritti durante i moti femministi degli anni venire. Basta leggere un suo verso, uno qualunque, per sentire la sua voce ancora indomita, potente, intatta, e sapere che almeno una cosa è riuscita a salvarla: il suo genio.
C’è chi crede che un tempo le donne fossero felici di condurre una vita semplice come mogli e madri, senza nient’altro da desiderare, solo perché quelle mogli e madri soffrivano in silenzio, senza fare rumore. La poesia di Sylvia Plath è il grido che ha raccolto tutti gli altri, e lo sentiamo forte e chiaro ancora oggi.
Source: freedamedia.it
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