Mi sono iscritta a Facebook nel 2007, quando mio fratello era negli Stati Uniti a studiare. Era un modo per sentirci più facilmente e l’idea mi incuriosiva. Agli inizi avevo paura a postare qualsiasi cosa, non sapevo bene come relazionarmi ai commenti e alla dimensione pubblica che avrebbero avuto i miei post, ma dopo qualche tempo è diventata un’abitudine come le altre, una specie di baretto virtuale dove ti senti a tuo agio. Fa uno strano effetto ora rileggere i commenti che tra amiche ci lasciavamo sulle bacheche anni fa, molto più personali di quelli di adesso e – almeno nel mio caso – anche abbastanza fuori luogo (cose del tipo “sono sotto casa tua mi devi rispondereeeee” oppure “vorrei dire pubblicamente che qualcuno ieri sera è tornato a casa sui gomiti”). In ogni caso, a parte qualche album di fotografie e tanti, tantissimi video di canzoni non ho mai ecceduto nella condivisione dei post, sempre seguendo il motto che meno è meglio. Ma non nascondo di aver provato e provare tutt’ora il piacere di pubblicare una foto per vedere che reazione suscita – e soprattutto, in chi, la suscita.
Naturalmente, col passare del tempo siamo cresciuti e con noi si sono evoluti anche i social network e il nostro modo di relazionarci a loro. La dipendenza da social è aumentata parallelamente al loro diventare veri e propri strumenti di lavoro, oltre che di piacere. Da semplice mezzo sono diventati il fine, e leggo sempre più spesso articoli che avvisano del pericolo di questa ossessione, di dover trasformare i momenti della nostra vita in contenuti appetibili per Instagram, specialmente per le nuove generazioni.
Ma accanto a tutte queste riflessioni, sicuramente valide, quello che ho notato in questo periodo è che insieme al bisogno di condivisione sta nascendo un altrettanto desiderio – e piacere – nel non condividere affatto i momenti della nostra giornata. Ho realizzato appieno questa sensazione per la prima volta qualche mese fa, grazie a una frase detta per caso da un’amica. Durante l’estate ho avuto un’avventura lavorativa esaltante, di quelle che si sognano per anni e finalmente si vedono realizzate. Una cosa che probabilmente molti altri avrebbero documentato minuto per minuto, ma di quest’esperienza non ho pubblicato praticamente nulla, se non una fotografia – una volta finito il lavoro – accompagnata una frase generica. Il commento di quest’amica è stato (per l’appunto): ma non ne avevo idea, non hai messo niente su Instagram e Facebook! In realtà una foto l’ho messa, ma è vero, non ho sottolineato particolarmente il discorso lavorativo: chi mi conosceva bene sapeva cosa stavo facendo; chi no, avrebbe potuto tranquillamente pensare che era solo una foto carina. E devo ammettere che ho sentito una gioia speciale nel farlo. Pur lavorando sui social – e quindi non volendo escludermi del tutto dalle piattaforme almeno per motivi di lavoro – ho cominciato a provare una sorta di gelosia nei confronti delle esperienze importanti, quelle che preferisci ancora fare lo sforzo di raccontare dal vivo; quelle che prevedono l’organizzarsi con le persone per incontrarsi e parlarne.
Molto spesso leggo che siamo una generazione che rischia di perdere il contatto umano. Non siamo abituati più a toccarci, siamo sempre più isolati, fatichiamo a mantenere la concentrazione, a guardarci negli occhi e a parlarci. Ma posso dire che sarà l’età, sarà che forse non è del tutto vero – o per lo meno, non siamo ancora del tutto perduti – in ogni caso, noto una certa spinta nella direzione opposta a quella che ci vorrebbe schiavi dei social. E non solo in me. Ho letto un articolo recentemente che parlava della stessa sensazione e poco dopo mi è capitato di parlarne con un’amica che stava facendo la stessa riflessione, proprio in questo periodo. Ha partorito da poco e di proposito ha scelto di non pubblicare foto né del pancione, né della piccola – evitando anche di annunciare l’evento sui social. Mi ha detto che ha voluto godersi il momento con le persone che realmente abitavano le sue giornate. Mi ha detto: “non voglio che si parli “genericamente” della mia famiglia, per lo meno non via di Facebook.” Non che ci sia nulla di male nel farlo, ci mancherebbe, ma mi ha incuriosita il modo in cui eravamo d’accordo sul trovare i social divertenti, ma eccessivi in quanto alla pressione generale di condividere il provato (sostenuta e potenziata da funzioni come le Instagram Stories). E di avere il mio stesso, inaspettato, piacere di vivere le proprie esperienze come momenti “segreti”, protetti. E forse anche per questo molto più significativi. Perché ho notato che mentre l’euforia del post appena pubblicato esaurisce in fretta, l’esperienza condivisa a parole si arricchisce delle reazioni di chi ci ascolta e finisce che, non so per quale ragione, ma anche l’avventura più modesta si trasforma in un poema epico. E diventa in qualche modo memorabile – sia il racconto che la serata stessa.
Mi viene da pensare che se è vero che è tanto facile – e alle volte anche pericoloso – esporsi, non farlo può essere più soddisfacente.
Source: freedamedia.it