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Kathryn Bigelow, l’unica regista al mondo ad aver vinto l’Oscar

Il cinema deve moltissimo alle donne. Dalla fine dell’Ottocento ai primi del Novecento, le registe sono state pioniere del mezzo e creative capaci di coglierne prima degli altri il potenziale. Basta pensare alla francese Alice Guy-Blaché, alla quale viene attribuito il primo film narrativo in assoluto, La Fée aux Choux, del 1896 (al massimo secondo, dietro a L’Arroseur Arrosé dei Lumière – le datazioni dell’epoca sono incerte). O alla predominanza di sceneggiatrici donne nella Hollywood degli anni 50. Purtroppo, però, la regola è semplice: se un fenomeno diventa economicamente rilevante, le donne (e in generale le minoranze) vengono messe alla porta. Solo il montaggio – forse perché si svolge “all’ombra” del regista – resta una riserva femminile, con una tradizione che va da Alma Reville (moglie di Alfred Hitchcock, che la considerava la “salvatrice” dei suoi film) a Alisa Lepselter (che da vent’anni monta i film di Woody Allen).

Insomma, a un certo punto della storia, ci hanno tolto il cinema. Ma tenacemente stiamo lottando per riprendercelo.

Un mattone importantissimo è stato posato nel 2008, quando finalmente una donna è riuscita a strappare l’Oscar alla Regia dalle dita rigide del freddo cadavere dell’Academy. Sto parlando ovviamente di Kathryn Bigelow, che ha vinto il premio per il suo The Hurt Locker. Prima di lei, solo quattro altre donne erano state nominate nella medesima categoria: Lina Wertmuller (Pasqualino Settebellezze, 1976), Jane Campion (Lezioni di piano, 1993, che per non dargli l’Oscar devi essere cattivo dentro, dai) e Sofia Coppola (Lost in Translation, 2003).

Il percorso di Kathryn è stato coerente, ma atipico. Vediamo un po’, qual è lo stereotipo più stereotipo che riuscite a immaginare, se vi dico “film diretto da una donna”? Fate del vostro peggio, avanti. L’adattamento di un romanzo di Nicholas Spark? Un drammone sulle suffragette e altri “temi femminili”? Non ci sarebbe niente di male, ovvio. Ma quando una regista arriva e ti piazza uno dei più grandi cult del cinema d’azione, il godimento è alle stelle.

Il cult in questione è Point Break, del 1991.
Point Break ha avuto una sorte contraria a molti film della Bigelow: scarso successo di critica, travolgente al botteghino. Eppure, il film è seminale dell’intera sua filmografia, precedente o successiva. Kathryn è sempre stata affascinata dal maschile, in particolare dalle sue dinamiche ralazionali, tanto da farne il suo cavallo di battaglia. Come in Point Break, anche film come Blue Steel e K-19 sono costruiti sulla contrapposizione tra identità maschili opposte, che finiscono per scontrarsi e contaminarsi a vicenda. A questa sensibilità si aggiunge quella per la contaminazione dei generi, e le due cose insieme hanno reso il suo lavoro sempre atipico, intelligente e difficile da inquadrare in modo netto. Certo, questa non è sempre una fortuna in termini di incassi – anzi, semmai il contrario. Strange Days (1995), prodotto dall’ex-marito James Cameron (che, a proposito, era suo concorrente all’Oscar del 2008 con Avatar), era una grande distopia noir postmoderna, ma ha floppato clamorosamente, incassando solo 6 milioni di dollari contro i 42 che era costato. Una disfatta dalla quale era difficile riprendersi. Altri sarebbero tornati a giocare sul sicuro, ma non Kathryn. Lei ha voluto dirigere un film che toccasse il delicatissimo tema della Guerra Fredda e ha girato K-19 interamente a bordo di un sottomarino, con tutte le complicazioni tecniche estreme che ne conseguivano. Nessuna major volle finanziarlo, e coi suoi 100 milioni di dollari (di cui solo 60 recuperati) è ad oggi il film indipendente più costoso di sempre.
Voi direte: a questo punto si sarà concessa qualcosa di un po’ più facile, no? No.
Ha continuato a esplorare quello che le interessava: il rapporto tra l’uomo (nello specifico, il maschio) e la violenza, e tra queste due cose e la loro rappresentazione hollywoodiana.

Bisogna aspettare il 2008 perché l’insistenza di Kathryn finalmente paghi. The Hurt Locker, il drammatico racconto di una squadra di artificieri statunitensi stanziata in Iraq, era facilissimo da sbagliare. Innanzi tutto, la guerra era ancora in corso, il che rendeva l’intera operazione estremamente delicata, dal punto di vista sociale e politico. Poi, era quasi impossibile farlo senza prendere una posizione, critica o patriottica che fosse. Infine, anche le difficoltà tecniche furono estreme: nient’altro che quattro 16mm a mano, in condizioni naturali sfavorevoli. Eppure, lei ha driblato tutti questi ostacoli, e ha raccontato una storia che parla di come la guerra contamina e distorce l’animo dell’uomo. E quando le hanno chiesto di schierarsi politicamente, ha risposto così:

“Il mio lavoro è comunicare; non sono nella posizione né di giudicare né di pilotare la politica. Trovo insopportabile quando un film si pone con superiorità rispetto allo spettatore, e non gli fornisce le informazioni necessarie a tratte lui stesso le sue conclusioni.”

Un approccio, questo, evidentissimo anche in Zero Dark Thirty, in cui Bigelow segue – con approccio quasi giornalistico – i giorni precedenti l’uccisione di Bin Laden da parte dei servizi segreti americani. Il film, che si focalizza sulla donna a capo della task force, non si risparmia su niente. Comprese le crude scene di tortura, perpetrate dagli americani sui prigionieri iracheni.

Il suo percorso ha stupito molti, ma a lei è sembrato solo naturale, e non ci tiene a portare lo stendardo di rivoluzionaria:

“Ho passato molto tempo a capire quale fosse la mia attitudine, e credo che sia quelle di esplorare e spingere più in là il medium. Non di rompere i ruoli o le tradizioni di genere.”

Ma si è detta anche onorata di essere la prima donna ad aver ricevuto tanti premi prestigiosi per la regia, e si augura di fare da apripista a tutte le donne registe del futuro. Ciascuna con una sua propria, unica attitudine.

Source: freedamedia.it

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