Lo scandalo che ha travolto il produttore cinematografico americano Harvey Weinstein, accusato di abusi sessuali da diversi attrici, ha acceso i riflettori in tutto il mondo sul tema dei ricatti subiti dalle donne nel mondo del lavoro. Ebbene, l’allarme non riguarda solo gli Stati Uniti e non riguarda solo il mondo dello spettacolo. Anche nel nostro paese le lavoratrici sono vittime del potere sessista. A metterlo nero su bianco è l’Istat, nelle sue ricerche su molestie, denunce, reati, violenza. Come spiega oggi La Stampa citando dati Istat relativi al periodo 2015-2016 in Italia i ricatti sessuali sul lavoro riguardano più di un milione di donne. Le lavoratrici italiane li subiscono in momenti diversi della loro esperienza: quando cercano lavoro, quando vogliono fare carriera ma anche mentre svolgono il lavoro da libere professioniste o imprenditrici.
Secondo l’Istituto nazionale di statistica a subire ricatti sessuali sono più le donne disoccupate che le occupate (probabilmente perché più vulnerabili, avendo bisogno di lavorare), più le indipendenti che le dipendenti (forse perché clienti maschi possono approfittarsi di loro) e più le impiegate e le dirigenti che le operaie (forse perché maggiormente coinvolte nelle decisioni dei superiori). Al di là dei numeri, che evidenziano quanto sia diffuso il fenomeno, c’è da dire anche che l’Italia, inadempiente con il dettato della convenzione di Istanbul, non ha norme specifiche per i ricatti sessuali sul lavoro. L’articolo 573 del codice penale su «maltrattamenti contro familiari o conviventi» può valere solo per le piccole imprese a conduzione familiare. Altrimenti bisogna fare riferimento alla legge sulla violenza sessuale del 1996. Resta pressoché impunita la pessima, disgustosa abitudine di fare allusioni pesanti contro la donna, che spesso sono quotidiane, continue. E talvolta costringono ad abbandonare il proprio impiego.
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