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Io T.V.B. Caro Ghali

Voglio molto bene a Ghali. Gliene voglio istintivamente, a pelle, ma anche, in maniera più ponderata, per quello che rappresenta per questo nostro Paese travolto com’è da un’ondata di aggressività e razzismo. Ghali scrive e canta di immigrazione con una poetica nuova, profondamente contemporanea.  Con ironia ma anche con una delicatezza abbastanza inconsueta per il mondo musicale da cui proviene. Sembra si limiti a raccontare se stesso, eppure i suoi pezzi sono il primo, vero incontro di massa che le nuove generazioni hanno con il mondo dell’immigrazione islamica.

Saviano – che l’ha definito “un dono che nasce quando il Paese ne ha più bisogno” – ha riassunto bene il suo essere un rapper (o un trapper) diverso dagli altri: non macho, né misogino o omofobo:

Ha cambiato la trap liberandola dalle costrizioni del gangsta. Non ha bisogno di fare il duro, il cattivo, il violento. Ghali ci mette tutto dentro: periferia, Dragon Ball, amore per sua madre. Nei suoi versi c’è uno stile poetico raro, l’eco di una sacralità rituale della parola.

In nemmeno un paio di anni, è diventato il nuovo fenomeno musicale italiano, con un album – intitolato Album  uscito nel maggio 2017, con quasi 2 milioni di follower su Instagram, oltre 1 milione e 700mila iscritti al suo canale YouTube e più di 82 milioni di visualizzazioni per il video Ninna Nanna. Nato a Milano il 21 maggio 1993 da genitori tunisini, Ghali è cresciuto a Baggio, quartiere della periferia milanese che non gode proprio di ottima fama. Nelle sue canzoni canta in italiano, ma anche in francese – con accento magrebino – e in tunisino, e nei suoi testi racconta spesso di sé e della sua storia: “Sono uscito dalla melma – da una stalla a una stella – figlio di una bidella – con papà in una cella”.

Proprio la mamma è una figura essenziale del mondo di Ghali: Cito sempre mia madre, perché quando scrivo vado molto di flussi di coscienza, e tra le prime parole che ho in mente c’è mia madre, mi viene sempre”. La mette nelle copertine dei suoi dischi, la fa salire sul palco ai concerti, le dedica toccanti messaggi sui social:

Ciao mamma ora puoi stare tranquilla, non sono mai stato il primo della classe, però sono ora il primo in classifica. E questa vittoria la dedico a te. Abbiamo dormito nella stessa stanza, sullo stesso letto, uno a fianco a l’altro fino ai miei 23 anni, fino a quest’estate, e questa musica mi aiuta a non vergognarmene. Ti ho messo nella copertina del mio singolo più importante perché me lo ero promesso da quando ero piccolo, da quando andavamo a trovare papà ai colloqui e vi baciavate mentre io disegnavo.

“Veramente lei ha fatto di tutto per me. Di tutto. Non so spiegarti, ma ho un’immagine. Io nella tempesta del deserto e mia madre che si para davanti per difendermi dalla sabbia”. Una tempesta scatenata soprattutto dei giri loschi del padre e dai suoi guai con la giustizia, tutte esperienze che hanno riempito l’infanzia del piccolo Ghali di immagini difficili da dimenticare:

I posti di blocco e io che abbasso la testa in macchina, mio padre che mi dice di non dire niente… Un elicottero sopra casa nostra e mio padre pensa che sia lì per lui. Oppure la telecamera nascosta nella macchina parcheggiata sotto casa per vedere chi viene e chi va, la pistola nel vaso di fianco all’ascensore, gli spaventi… Poi, quando arrestano mio padre, con mia madre abbiamo vissuto tutto assieme, dalle camminate per andare a trovarlo in carcere alla sveglia ogni mattina con lei per aiutarla a cucinare, fino ai pacchi che portavamo a San Vittore sotto la neve e sotto il sole.

Leggendo le interviste si scopre che ai colloqui in carcere col papà, Ghali e la sua mamma ci andavano un po’ come due compagni di classe, ascoltando i dischi nel lettore cd che lei gli aveva comprato “con tanta fatica, una cuffia a testa fino a quando non arrivavano all’entrata del carcere”. Ghali non manca mai di ringraziarla la donna che l’ha cresciuto in mezzo a tante difficoltà e sacrifici: faceva la bidella (“mamma africana pulisce sempre a novanta” canta in Cazzo Mene) e a trentotto anni si è ammalata di un tumore:

Eravamo solo io e lei: mio padre era in carcere e io avevo otto anni. Altre sue amiche si sono ammalate e non ce l’hanno fatta ed è lì che ho iniziato a credere veramente in Dio, perché lei invece è guarita. Se non ci fosse stata lei io non sarei nulla… La maggior parte delle persone che conoscevamo si è fatta togliere i figli, mandati in affido. Io sono l’unico a essere rimasto a casa, sono il sopravvissuto.

E proprio per questo probabilmente l’atteggiamento di Ghali verso il mondo femminile – e non solo – è caratterizzato da un rispetto spesso assente nella scena rap, trap e hip hop. Un rispetto che gli è stato trasmesso dalla madre, anche senza bisogno di troppe parole: “Molte volte anche involontariamente. Vivendo. La mia storia mi ha insegnato questo. Mia madre non mi ha insegnato queste cose bacchettandomi”.

E proprio a proposito di donne e rispetto per il femminile, qualche tempo fa Ghali, mentre era ospite a Radio Deejay nel programma Pinocchio, condotto da La Pina e Diego, ha giocato a inventare parole e frasi necessarie per diffondere una cultura di genere più sana, come “Non essere donnambulo”, ovvero non approcciarti alle donne senza consapevolezza, oppure “Prima di fare una cosa conta quante donne hai in famiglia”, o ancora coniando un termine che fonde “femminile” e “rispetto”: “Ci vuole femminispetto!”.

Quando poi gli domandano nello specifico dei suoi testi e del suo linguaggio privo di violenza e stereotipi, anche di genere, Ghali dimostra una maturità sorprendente per i suoi 25 anni:

Sento una responsabilità nei confronti del mio pubblico. Loro si avvicinano a me anche per il tipo di messaggio. I ragazzi prendono veramente sul serio quello che dici. Ascoltano il tuo pezzo e lì gli trasmetti delle vibrazioni, gli trasmetti delle cose. Noi abbiamo un’arma potentissima in mano, non puoi scherzare con questa cosa. Sei l’esempio. Io la prendo molto sul serio, e anche se mi diverto molto a fare musica, e a volte vorrei tanto mettere semplicemente delle parole belle in sequenza, sto sempre attento al messaggio.

Ghali racconta anche di come arrivi a non sfogare alcuni impulsi di rivalsa che avrebbe, consapevole della visibilità e della risonanza che i suoi gesti oggi possono avere soprattutto sui più piccoli:

Prima di diventare famoso, certi buttafuori mi avevano preso di mira. Non mi facevano entrare nei locali. Mi dicevano: “Sei brutto”, “Sei troppo magro”, “Guarda come sei vestito”, “Vai a cantare sotto la doccia”. Oggi, la tentazione di tornare lì e fare un video per mandarli al diavolo ce l’avrei. Ma a un ragazzino potrebbe venire l’idea di fare lo stesso con un professore. E, poi, sarebbe una vendetta inutile e un gesto negativo.

La storia di Ghali è una storia fatta anche di emarginazione e dolore, L’origine stessa del suo rapporto con la scrittura arriva dall’impulso di trasformare la sofferenza: Il mio è un talento che nasce da una frustrazione, l’ho scoperto tornando a casa da scuola arrabbiato perché ero stato bullizzato. Ho preso un foglio e ho iniziato a scrivere”Ed è per questo forse che preferisce usare la sua musica e la popolarità che ha raggiunto per fare del bene piuttosto che per lasciarsi andare a cinismo e pose da star:

Io non vorrei mai che il mio ultimo messaggio fosse un’Instagram stories con la lingua di fuori, o un’Instagram stories con le collanine in cui ti faccio vedere la liste delle cose che sono riuscito a comprarmi e tu no. Abbiamo un raggio di comunicazione molto forte, possiamo aiutare tante persone.

Ghali insomma è un modello di inclusività e condivisione: quando parla, nelle interviste,  lo fa quasi sempre al plurale. Il riferimento fisso è al suo team, alla sua crew di ragazzi italoafricani (Amed, Endri, Ruth e Diane) che lo aiutano e che insieme a lui danno vita al progetto “Ghali”. Lui stesso non manca mai di parlare dei suoi modelli – Michael Jackson su tutti – e quando gli si domanda qual è il suo sogno creativo si scopre che anche quello è un sogno di collaborazione: “Un pezzo Jovanotti, Stromae, Manu Chao e io”.

Ogni dettaglio dello stile e dell’immagine di Ghali apre mille porte a storie e racconti. Persino i capelli, gli ormai iconici dreadlocks, che sono arrivati in realtà di recente, nel 2015:

Fanno parte di un cambiamento più in generale della mia vita. Uscivo da una brutta esperienza discografica. Tra i 17 e i 20 anni. (…) È stata una bastonata, ho toccato il fondo. Sono risalito anche anche grazie a una ragazza di dieci anni più grande di me che mi ha cambiato la vita. Mi ha fatto leggere libri, vedere film, documentari. Una serie di cose che mi hanno ispirato e che mi hanno fatto crescere i dreadlocks. Si dice che siano un’espansione dell’anima.

Mi piace concludere questo articolo con la dedica – da pelle d’oca – postata sui social proprio da Ghali il 2 maggio 2017 in occasione dell’uscita del suo disco Album:

Lo dedico a mia madre, questa è la mia laurea. A mio Zio. Al Dio che mi ha seguito finora, questo è il mio pellegrinaggio. Al sorriso di Sami, a quello di Nathan e a quello di Fawzi. A Rimo, a Sufi, a Mirko, a Ste, a Cilu, a Paul.
Ai buttafuori.
A Nas che mi ha visto crescere, questo è il mio bimbo.
Ad Anto, questo è il mio libro.
Ad Amed, questo è il disco.
A Marvely, questa è la mia disco. A Charlie, questo è il destino.
A Monique, qui ci sono anche i tuoi insegnamenti.
A Putto e a Leonardo.
A Sto Records, questo è un nuovo record.
Ad Abe, a Endri, a Chri, a Daves, Fulgo, a Martina, Ale, Giuliano.
A Sfera, Izi, Rkomi e Tedua.
A Jamie e a Murdaca.
Riposa in pace Leo, riposa in pace Edo.
All’Italia, al paese che mi ha cresciuto, a Baggio, a San Siro, Seguro, Bonola e Giambellino, Viale Padova, Barona e Quarto Cagnino.
A San Vittore, a Bollate.
A tutte le minoranze.
Alla Tunisia, alle mie origini, a Tunisi, a Hay etta7rir a Hay Ettadhamen e al Malasin.
All’Africa.
A Troupe D’Elite.
A Oussama, A Daniele, a Federico, a Cosimo.
Questo è il mio ritorno, la rivalsa e il perdono.
Perdono mio Padre,
Il cancro e il diabete.
Questo è dedicato a chi non ho citato.
Amen, da Ghali il figlio di Amel.

Source: freedamedia.it

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