Quando diciamo che le quote rosa sono umilianti e che il lavoro andrebbe distribuito per merito e non per sesso, diciamo una cosa sacrosanta, ma partendo da un presupposto errato: che le donne abbiano lo stesso accesso alle cariche di potere degli uomini.
In teoria, i presupposti ci sono. Negli Stati Uniti circa il 60% dei laureati sono donne, e nelle facoltà tradizionalmente maschili – come legge o medicina – superano il 50%. Eppure Sally Blount, unica donna a guidare una delle 10 business school più prestigiose del mondo (la Kellogg School of Management, nella Northwestern University), ci dice che la pratica è tutta un’altra storia.
I dati predicono che almeno il 50% delle donne americane laureate nelle più importanti facoltà di Management e Business lasceranno il lavoro full-time entro 10 anni dalla laurea – sia per scelta che perché costrette. Questo trend non promette bene per il futuro
Il problema non ha un’unica causa, sarebbe troppo facile. Le cause sono molte, biologiche e sociali, e senza prenderle in esame una ad una sarà impossibile arrestare questa emoraggia che finirà per escludere le donne dalla “linea produttiva del talento”.
Con l’intento di indicare le possibili linee guida per uscire da questa situazione prima che sia troppo tardi, Blount ha isolato i tre momenti della vita di una donna in cui si decide il destino della sua carriera.
Le ricerche confermano che le ragazze, a partire dalla laurea, difficilmente riescono a raggiungere la parità salariale con i colleghi maschi, anche per lo stesso lavoro. È stimato che, mediamente, riescano a raggiungerne al massimo l’80%, e questo vale anche per chi esce da scuole prestigiose come Northwestern, Princeton e Harvard. Se questa differenza si riscontra già in partenza, come possiamo pensare che queste giovani donne concorreranno ad armi pari coi coetanei maschi negli anni successivi? La stessa cosa vale per la difficoltà di accedere agli stage delle maggiori aziende, che solitamente fungono da acceleratori di carriera.
I fattori che conducono a questa prima disparità potrebbero essere tre. Il primo, come sempre, è lo stereotipo, che giudica le ragazze inadatte al mondo degli affari. Il secondo, che la società tende ancora a non incoraggiare le bambine che si interessano alla matematica. Il terzo, che quelle stesse bambine, lungo il loro percorso, incontrano pochi modelli femminili di successo in questi campi.
È importante rivolgersi alle studentesse di business in modo da aiutarle ad affrontare al meglio l’inizio della loro carriera, scongiurando così il rischio di ritiri nella fase successiva.
Tra i 30 e i 40 anni, uomini e donne affrontano difficoltà lavorative simili. La differenza è che le donne tendono a subire maggiormente il peso degli impegni e delle aspettative extra-lavorative, uno su tutti la famiglia. Lo stress diventa così alto, e il riscontro economico è comunque così basso rispetto a quello ottenuto da uomini con le stesse mansioni, che molte concludono che non valga la pena di continuare.
Secondo uno studio del 2004, il 93% delle donne americane vorrebbe tornare a lavorare dopo aver avuto un figlio, ma solo il 75% ci riesce, e solo il 40% a tempo pieno. Inoltre, i dati OECD mostrano che il picco dell’impiego delle donne tra i 25 e i 54 anni è stato del 75% nel 2000. Oggi oscilliamo tra il 69-70%, come nella metà degli anni 80.
Paesi come la Danimarca, la Norvegia e la Svezia dimostrano che tenendo in dovuta considerazione i servizi rivolti alla prima infanzia, oltre che rendendo più flessibili gli orari aziendali, questo problema può essere superato. Secondo Blount, però, è importante anche che le scuole di business preparino le donne ad aspettarsi queste criticità, così da affrontarle lucidamente quando sarà il momento di farlo. Convincerle che per loro sarà esattamente come per gli uomini non ha senso. Il rischio è che finiscano per sentirsi sole e sopraffatte, e abbandonino il gioco pensando di non avere alternative.
La lezione più importante da imparare? Chiedere aiuto. I ricercatori, infatti, affermano che tra i 30 e i 40 anni anche gli uomini tendono ad entrare in crisi rispetto al lavoro, ma si fanno meno problemi a chiedere aiuti e avanzamenti salariali.
Anche le donne che hanno superato le difficoltà precedenti si trovano, attorno ai 50 anni, a scontrarsi con lui: il soffitto di cristallo. Anche volendo escludere il discorso sui pregiudizi, lo svantaggio accumulato fin a questo punto basta a rendere molto difficile per una donna l’ingresso nella c-suite. Gli studi dimostrano che, in questa fase, le donne sono meno motivate degli uomini a raggiungere le posizioni di potere, perché disilluse e stanche. Considerando che, arrivate a questi livelli, queste donne hanno sicuramente da parte una bella sommetta, molte di loro si chiedono: vale la pena di continuare a lottare, quando potrei ritirarmi e godermi i miei soldi? Scatta così l’ultima fase degli abbandoni, appena prima del traguardo.
In questa fase è necessario tenere alta la motivazione, ma anche offrire delle opportunità concrete. Una soluzione potrebbe essere mantenere costanti le valutazioni degli impiegati allo scopo di identificare i più promettenti che vengano da diversi background, non solo a livello c-suite, ma anche a due o tre livelli inferiori. In questo modo si ridurrebbe il rischio di sprecare talenti preziosi sulla base della minoranza, in questo caso di genere.
A questo punto, Blount conclude:
Se riuscissimo a far iscrivere il 25% in più di donne alle scuole di business; se riuscissimo a far ottenere al 25% in più delle donne i primi lavori nel campo; se riuscissimo a farne restare il 25% in negli anni centrali della loro carriera; se riuscissimo a fornire alle nostre donne più forti il supporto di cui hanno bisogno per ambire alle posizioni più prestigiose, inizieremmo finalmente a realizzare il nostro pieno potenziale come società che sposa i pari diritti per tutti.
Source: freedamedia.it
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