Ricordo un bellissimo post che lessi qualche tempo fa su Facebook (e che immagino girasse ormai da parecchio tempo): su una sedia di legno, c’erano scritte alcune regole fondamentali sul comportamento che impariamo all’asilo. Principi come il rimettere le cose al proprio posto dopo aver giocato, non prendere le cose altrui senza prima chiedere il permesso, non fare male a nessuno, saper condividere spazi e oggetti con gli altri e giocare secondo le regole. Poche e semplici regole che bastavano a ricoprire di scritte una piccola sedia di legno. A questo, ho istintivamente aggiunto un insegnamento che mi ripetevano spesso i miei genitori, ogni volta che andavo a pranzo da qualcuno: se proprio non mi andava di mangiare qualcosa era bene evitare uscite del tipo “non lo voglio, che schifooo” o cose del genere, ma potevo semplicemente rispondere “si, grazie” e “no grazie“, ammettendo senza vergognarmene se qualcosa non mi piaceva, ma ricordandomi sempre che la mia opinione, se espressa male, poteva offendere chi aveva impiegato del tempo a preparami qualcosa. Bisognava rispettare il lavoro degli altri.
Questo banale aneddoto mi è tornato spesso in mente ora che sui social è facile imbattersi in immagini o parole che nessuno ci obbliga a guardare, e che se non ci piacciono, abbiamo tutto il diritto di ignorare, senza cadere nella tentazione di dire per forza la nostra opinione a riguardo. Eppure, internet è diventato il palco delle più tristi rappresentazioni del “peggio di sé”, che vede molte persone intente a rivendicare il diritto di sentenziare su vite che non conoscono, scambiando la propria cattiveria gratuita, con sincerità.
Mi sembra che a riguardo ci sia un grande fraintendimento, secondo cui il dire le cose male corrisponde all’essere schietti e onesti. Credo che in realtà questa brutalità mascherata da schiettezza nasconda una questione ben più spinosa, ovvero che formulare un giudizio senza essere offensivi e rimanendo fedeli alla propria idea, costa fatica. Tanta. Lo vedo nel modo in cui riesco a trattare malissimo i miei familiari quando sono a casa, perché posso prendermi quelle libertà, che con un estraneo (o un datore di lavoro) non mi azzarderei a prendere mai. È orribile, ma è così. Costa fatica. Eppure, ogni giorno mi ripeto che è proprio una di quelle difficoltà che vanno affrontate, perché il dilagare della violenza verbale abbia raggiunto un livello ormai troppo alto, che credo non abbia bisogno anche del mio contributo.
Scrivendo sul web e lavorando come attrice, so bene cosa vuol dire essere costantemente sottoposta al giudizio delle persone, ma la differenza sostanziale tra le due cose, è che se a teatro non mi giungono i dettagli delle critiche (raramente riesco a risalire a chi ha detto cosa) e posso intuire l’andamento di una serata dal quel silenzioso dialogo che si crea in sala con il pubblico, sul web invece no: le parole dette sono alate, quelle scritte son dei macigni. Che pesano.
Certo, si può dire che in un mestiere che ci pone di fronte a un pubblico è normale scontrarsi con l’opinione cruda e fredda del proprio uditorio: è parte del nostro lavoro. Ma come succede a teatro, preferirei continuare a valutare ciò che faccio da un andamento generale, o magari confrontandomi personalmente con qualcuno a cui posso spiegare le mie ragioni; faccio fatica invece a trattare in modo costruttivo i commenti lasciati di fretta e senza cura, in maniera diretta, pubblica, perentoria e lapidaria, che lasciano veramente poco spazio al dialogo e una scia di umiliazione davvero poco gradevole. Un attore capisce subito l’umore della gente in sala: lo percepisce dal magnetismo creato dagli sguardi, lo sente dai colpi di tosse, lo legge nei volti annoiati delle persone in prima fila – quando non sono già in fase REM – o dalla distrazione del pubblico in balconata. Questo scambio così particolare ha un effetto positivo, permette di poter lavorare con il pubblico, migliorare lo spettacolo, farlo crescere attraverso un dialogo vero, che può anche essere frutto di frustrazione, ma pur sempre regolato da un rito che garantisce il rispetto. Sul web, inutile dirlo, le cose son ben diverse. Tra tanti commenti educati, ce n’è sempre sempre una maggioranza sciatta e inutilmente offensiva (anche quando l’argomentazione potrebbe essere valida).
Ho ascoltato Cate Blanchett fare questa riflessione in un’intervista, ed è stata proprio la divina Cate – attrice tornata da qualche anno a teatro – a collegare questo tipo di esperienza teatrale con i media: perché abbiamo perso questo modo di relazionarci tra di noi? Perché non sappiamo collegare quel desiderio di esprimere la nostra opinione (del tutto legittima) alla nostra esperienza del reale, dove abbiamo un codice di comportamento che ci impedisce di aggredire le persone, come invece ci sentiamo legittimati a fare, da dietro uno schermo?
Sul web si è come drogati dall’ebbrezza di dar sfogo alle nostre piccole manie senza essere giudicati; si può godere del piacere di spiare nelle vite degli altri, condannarli (o segretamente invidiarli) senza che nessuno lo sappia e senza troppe conseguenze. Una tentazione irresistibile, che ha aperto il vaso di Pandora, per tutti. E la possibilità ancora più elettrizzante è quella di potersi affermare con una propria narrazione: costruisco la mia identità con un mosaico fatto di parole e immagini, e come un giudice posso analizzare tutto ciò che mi viene offerto. Dopotutto, ce lo chiede Facebook: ti piace?
Questo vortice di giudizi è sempre in risposta, e dopo aver automatizzato questo meccanismo, tutto ci sembra una sorta di provocazione, che si riferisce direttamente a noi. Il linguaggio della pubblicità ci aveva già abituati a un mondo che ci parla direttamente e che mi offre (leggi vende) di tutto. Da qui, un’altra legittimazione: il cliente, ha sempre ragione. Ma il punto è proprio questo: una cosa (e ancor di più una persona!) non mi deve “piacere” per meritare rispetto. Non dobbiamo condividere gli stessi valori e non dobbiamo condividere le stesse scelte per meritare rispetto.
C’è un livello più alto di discussione, che non va mai dato per scontato (e che dovrebbe essere l’abc del comportamento) secondo cui il mio interlocutore A PRESCINDERE, merita rispetto. E per quanto ci venga continuamente chiesto di esprimere un parere, lasciare un commento, decretare il valore di un pensiero o una persona con il pollice blu, forse dovremmo riprendere quei valori elencati all’inizio e ricordarci una triste, amara, dolorosa verità: le nostre opinioni non valgono niente. È sensazione fastidiosa, in certi casi sgradevole, ma è così. Naturalmente è sacrosanto avercela, ma non vale niente di più e niente di meno, di quella della gente che non ci piace. E quello che pensiamo, se già è un miracolo che interessi a qualcuno che ci vuole bene, in generale, non interessa a nessuno. E lo ribadisco nel caso queste parole vengano lette da qualcun* di quell* che inondano di giudizi non richiesti ogni angolo del web, sommergendo di cattiverie e insulti le bacheche delle persone – spesso, guarda caso, di donne famose.
Eppure non sarebbe più liberatorio, abbandonare un attimo la nostra prospettiva, il livore delle nostre frustrazioni – frutto dei pensieri violenti che prima di raggiungere la tastiera, inquinano il nostro cervello – e pensare che questo monologo che vogliamo a tutti i costi condividere con il mondo, non solo non ha senso per gli altri, ma neanche per noi? Invece di continuare ad affannarci, alla ricerca di un modo istantaneo, comodo e veloce di dire “Io ci sono! Io esisto! E sono bravo!” (perché questo si fa, quando si lasciano quei bei commenti al vetriolo) non potremmo cercare la nostra identità altrove? Lo penso spesso quando vorrei reagire d’istinto ad alcune situazioni con commenti acidi, per poi notare quanto il sotto testo sia sempre quello: ce l’avessi io quel lavoro, quel fidanzato, quelle possibilità, quella disponibilità di tempo, di soldi, ALLORA… E poi mi fermo e mi chiedo: allora cosa? Saresti davvero migliore? Sarebbe davvero diverso?
L’istinto mi risponde “sì!” e poi subito l’esperienza sorride e dice: “no, proprio no”. Non sarei più o meno brava, bella, intelligente e brillante di nessun altro – altra amara e bellissima verità. C’è e ci sarà sempre qualcuno migliore o peggiore di noi. E questo può essere un pensiero davvero liberatorio: nessuno pone su di noi tutte queste responsabilità, se non noi stessi; nessuno ha tutte queste aspettative su di noi. Non siamo così importanti. E sapete una cosa? Come ho già avuto modo di scrivere, va benissimo così: Ulisse si è salvato fingendosi nessuno. Forse non è un caso. E forse, tutto ciò che davvero ci serviva sapere sulla vita era racchiuso in quei primi principi assimilati all’asilo.
Ma questa, naturalmente, è soltanto un’opinione.
Source: freedamedia.it
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