Il loro nome è sinonimo di grandi vini, alta qualità, ricerca continua. Nelle loro bottiglie si assapora il gusto della tradizione, l’amore per il territorio, la passione per l’arte vinicola. “Crediamo nella terra e nei suoi valori, rispettiamo l’ambiente che ci ospita, amiamo queste colline dolci e difficili” è la loro filosofia di vita. Edi e Kristian Keber, padre e figlio, sono le due ultime generazioni di una famiglia che da oltre trecentocinquant’anni produce vino con orgoglio, fierezza e passione, ed è ormai diventata sinonimo e simbolo del Collio. Già, perché di questo territorio (150 chilometri quadrati circa, in provincia di Gorizia, nella zona al confine tra Italia e Slovenia) i Keber sono i più strenui sostenitori e difensori, delle vere e proprie pietre miliari capaci di elevare una regione ai vertici mondiali della produzione di vino bianco. E che vino bianco! Il Collio Keber nasce dall’unione di tre vitigni: il Tocai Friulano, la Malvasia Istriana, e la Ribolla Gialla.
Incontriamo Edi e Kristian nella loro azienda agricola a Zegla, nei pressi di Cormons, luogo magico in cui all’orizzonte si vedono solo sterminati filari di preziosa vite, e si respira il profumo della tradizione. Siamo alla vigilia di Vinitaly, la più grande Fiera del vino e dei distillati: Edi (occhiali con la montatura gialla come il vino che produce e il colore della Vespa che sono state acquistate dai soci per girare le cantine) e Kristian (appassionato e talentuoso erede di un’impresa familiare di grande spessore) ci accolgono con generosità e calore, e ci raccontano che anche quest’anno sono presenti a Verona con i loro prodotti.
KRISTIAN KEBER: A Vinitaly proponiamo il vino del 2016. E’ una scelta che abbiamo fatto qualche anno fa, quando abbiamo deciso di non portare vino fresco. E’ vero che tante persone vengono in Fiera per la novità. Molti di noi portavano campioni da vasca, quindi non imbottigliati, che però non c’entravano niente con il prodotto finale da bottiglia (c’è da considerare l’ulteriore passaggio di affinamento). Secondo noi quei vini erano troppo giovani, quindi portiamo l’annata 2016, che è quella che abbiamo adesso in commercio (con l’annata 2017 usciremo ad agosto-settembre). Crediamo che i vini bianchi friulani abbiano una possibilità di invecchiamento molto lunga rispetto ad altre zone vinicole nazionali e internazionali; ci sembra quindi un delitto portare vini con chiusure forti, non ancora pronti.
Cosa rende unico il vino bianco del Friuli Venezia Giulia, rispetto a quello prodotto in altre importanti zone di bianco in Italia?
KK: Credo che il vino di queste zone abbia una caratteristica ben precisa: è contro moda. La Francia tendenzialmente ha dei vini molto più acidi dei nostri, e questo oggi è un trend nel mondo del vino, l’acidità va molto forte (anche nel mondo dei rossi, ad esempio oggi il Pinot nero va molto più del Bordeaux). Il Friuli non è in questo trend; i vini della nostra terra non hanno alte acidità, sono molto più complessi, un po’ più amari e l’amarezza facilita la beva. Alta acidità o alta dolcezza bloccano la beva. Un po’ di amaro migliora la beva; noi non siamo né acidi né dolci, siamo più vicini a un gusto amarotico, e quell’amaro secondo me fa bene perché stufa meno.
Negli ultimi dieci hanno la vendita del prosecco ha fatto registrare un +240% nelle esportazioni, soprattutto verso gli Stati Uniti. Molti produttori, anche in queste zone, hanno deciso di seguire il mercato e cominciare a produrre prosecco. Cosa ne pensate voi dell’exploit di questo tipo di vino?
KK: C’è da dire che la zona di produzione del prosecco è vicina (da Cormons in poi si può fare questo tipo di vino) ma secondo noi non è adatto per il nostro territorio. Il prosecco ha aiutato molto l’economia del Friuli perché ha dato a molti viticoltori un buon reddito che prima non c’era (si parla soprattutto della zona della Bassa Friulana). Ha una buona strategia in generale perché è territoriale, ma questo non funziona bene da noi. Prosecco deriva dal nome di una città, quindi diventa territorio e può essere protetto per le regole internazionali (il Sauvignon e la Ribolla non possono essere protetti, ad esempio). Non è il nostro ambito, non siamo nel mondo delle bollicine. Noi viviamo in collina, qui non possiamo entrare in quel tipo di produzione, se non da perdenti. E poi fare spumante è la cosa più difficile di tutto il mondo vitivinicolo. Noi da centinaia di anni produciamo bianco, stiamo diventando esperti in questo; cambiare sponda ed entrare in un settore molto più difficile non avrebbe senso per noi.
Il biologico è una moda passeggera o un trend destinato a durare?
KK: La nostra azienda è biologica certificata, noi lavoriamo così da diversi anni. E’ vero che il bio è una moda, ma è una cosa buona perché sta spingendo tante aziende a usare il metodo che utilizzava mio nonno, e i miei antenati prima di lui. Nel bio bisogna credere, io ho cominciato a crederci in tempi non sospetti.
EDI KEBER: Quando ero ragazzo non esistevano tante cose che sono venute dopo: una volta si zappava la terra, non c’erano diserbanti e fino agli anni Ottanta non li abbiamo usati perché non erano nella nostra cultura. Alla fine degli anni Ottanta è arrivata l’atrazina (erbicida usato per proteggere il mais, ndr); i primi tempi si usava dappertutto ma nessuno sapeva che faceva male alla vite. Così abbiamo rovinato tutto, in primis il terreno, che è diventato molto più duro. Adesso per questo non abbiamo più tante vecchie varietà di vite e di semi.
KK: Il biologico, abbinato al chilometro zero è il futuro. Il passaggio ancor più importante sarà che, chi compra bio, si informi, capisca le regole che effettivamente stanno alla base del produrre biologico. La gente che viene qui (soprattutto gli stranieri) sa tutto, anche il tipo di erba che ho seminato e il motivo per cui l’ho fatto. Molti oggi lo fanno per trend, sta diventando quasi una mania, anche se in Italia ancora non c’è questo tipo di cultura. Tutto questo non è altro che tornare al tipo di conoscenza che c’era prima della Prima guerra Mondiale. Il cambiamento enorme è stato dato dall’impulso meccanico, il passaggio epocale è stato quello dalla vacca-cavallo al trattore. Il trattore è pesante e fa calpestamento; nessuno ci pensa. Il calpestamento, ad esempio, va ridotto e vanno applicate alla coltivazione della vite tante altre regole tipiche del biologico, del biodionamico e della permacolutura. Il futuro, quindi, non è altro che cercare di tornare a quel tipo di consapevolezza e cultura del territorio, del suo trattamento. Abbiamo perso un blocco di conoscenza e non riusciremo più a tornare a quel livello.
La campagna pubblicitaria con l’immagine di una modella di colore che stringe al seno nudo una bottiglia di vino, con la scritta “L’unico bianco che amo”, è passata alla storia. Edi, ci racconta come è nata questa pubblicità dei vini del Collio firmata dal grande fotografo Oliviero Toscani?
EK: E’ successo tutto nel 2001, negli anni del passaggio dalla lira all’euro. Facevo parte del Consiglio di amministrazione del Consorzio dei vini del Collio, presieduto all’epoca da Marco Felluga (produttore di vini e proprietario dell’omonima cantina, ndr): lui mi volle nel consiglio per portare avanti la campagna a sostegno del territorio, per fare il vino che si sarebbe chiamato semplicemente Collio. Ho sempre adottato quel tipo di filosofia per la mia cantina, ho sempre voluto un vino solo. Ho iniziato a fare il Collio Bianco nel 1981, ho portato quest’idea al consorzio, ho fatto cambiare i disciplinari, ho lavorato tanto su questo progetto. All’epoca eravamo solo in quattro a fare quel vino, oggi su centoventi imbottigliatori ottanta fanno Collio bianco. E questo vino lo abbiamo solo noi! Per quanto riguarda la foto di Toscani, ricordo soprattutto che abbiamo discusso a lungo cosa fare per la pubblicità di promozione del nostro prodotto, ma abbiamo visto il risultato finito solo poche ore prima della pubblicazione. Toscani è un vero professionista, ha fatto un lavoro straordinario. Ha creato un’immagine che non passerà mai di moda, ancora oggi quella foto è attuale e bellissima, perché è efficace e divertente.
E’ vero che avete portato avanti una battaglia per il cambiamento delle bottiglie per il Collio?
EK: Credo che chiunque faccia parte di un CDA (per un anno, sei anni, cinquant’anni) debba portare avanti delle idee, delle innovazioni. Per molto tempo, senza successo, ho provato a proporre l’idea di fare una bottiglia nuova per tutti: ce l’ho fatta nel 2008-2009. E’ stato un lavoro molto lungo e difficile, nel quale ho sempre creduto. Io stesso ho disegnato questa bottiglia, con l’aiuto di mio figlio Kristian. La differenza, rispetto alle altre, sta nell’attaccatura tra il collo e il corpo (è più squadrata) e nel peso (è più leggera, è fatta con meno vetro quindi si raffredda prima e abbatte i costi di trasporto). L’altezza è la stessa, quindi non impone il cambiamento dei cartoni per la vendita (ma anche per la conservazione in frigo, nei bar eccetera) ed è più bella, più elegante. Ho proposto la mia idea in assemblea, portando un campione in legno (pagando io stesso la ditta che mi ha fatto il prototipo) . Non è stato facile, la bottiglia in legno era brutta ma sono riuscito a ottenere il 78% dei consensi dell’assemblea. A quel punto, poiché il progetto era mio, ho dovuto trovare da solo la vetreria che mi producesse le bottiglie: sono stato fortunato, perché la persona che mi ha seguito presso la vetreria di Milano Vetrobalsamo, ha fatto un lavoro davvero encomiabile e ha creduto nel mio progetto. Il giorno in cui ho firmato il contratto ho ordinato seicentomila bottiglie per la mia azienda. Vi dico solo che quel giorno mia moglie voleva lasciarmi (la signora Silvana oggi gestisce il bed and breakfat annesso all’azienda agricola, ndr)! Per fortuna poi le cose sono andate bene e la mia idea ha avuto grande successo.
Source: www.corrierequotidiano.it
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