Le classifiche musicali del 1981 erano dominate da un brano pop rock che faceva così: All the boys think she’s a spy, she’s got Bette Davis eyes. La canzone era Bette Davis Eyes e quelli erano – anzi, sono ancora – gli occhi più famosi del cinema.
Bette Davis è considerata all’unanimità una delle più grandi attrici mai vissute. Famosa per prediligere ruoli duri e sardonici in un periodo in cui le colleghe li rifiutavano per non perdere la simpatia del pubblico, i racconti su di lei ci parlano di una diva intransigente, megalomane e litigiosa. Però Katheryne Sermank, l’assistente che è stata al suo fianco per più di dieci anni fino al momento della sua morte, nel recente memoir dal titolo Miss D & Me: Life with the Invincible Bette Davis ci parla di una Bette diversa, che crede nell’importanza della collaborazione femminile, specie tra donne di diversa generazione, che le ha insegnato come diventare indipendente e farsi valere in un mondo dominato dagli uomini. E d’altra parte sono stati proprio gli uomini i principali narratori della vita delle donne famose, e il loro punto di vista – non per forza sbagliato, ma parziale – ha determinato per anni il nostro modo di vederle e di vederci l’un l’altra. Bette Davis, per esempio, era più del suo personaggio; era una donna talentuosa, consapevole di sé, che è diventata l’attrice più pagata d’America nonostante le avessero detto che era troppo brutta per recitare.
Quando Bette arriva alla stazione di Hollywood insieme alla madre, nel dicembre 1930, non trova nessuno ad aspettarla. La persona che avrebbe dovuto accompagnarla agli Universal Studios era a pochi metri da lei, ma se ne va perché “non vede nessuno con l’aspetto di un’attrice”. A 22 anni Ruth Elizabeth – chiamata prima “Betty” e poi, per sua scelta, “Bette”, in riferimento a un romanzo di Balzac – è una delle tante giovani attrici teatrali che tentano di fare il salto nel cinema.
Formatasi alla Cushing Academy e alla John Murray Anderson’s Dramatic School, ha debuttato a Brodway l’anno prima con Broken Dishes, ottenendo un ottimo successo sia tra il pubblico che tra la critica. Il mondo del cinema però ha altre regole, e Bette le impara nel momento in cui il produttore Samuel Goldwyn decide di non scritturarla perché “troppo brutta”. Rimane comunque agli Studios e viene impiegata in mansioni minori, come fare da spalla agli attori durante i provini. In un solo giorno, per esempio, deve farsi schiacciare sul divano e baciare da oltre 50 uomini in lizza per una parte, e lei – pudica e vergine – ne rimane scioccata. A un certo punto il regista Karl Freund nota la particolarità dei suoi occhi e la scrittura per il film Bad Sister, che però va male al botteghino. Durante le riprese, Bette sente un produttore deriderla per la sua mancanza di sex appeal. Non c’è da stupirsi se in seguito ammetterà di essersi sentita sola e terrorizzata, all’inizio della sua carriera, e di essersi dovuta indurire per non farsi inghiottire dallo star system.
Dopo un anno di tentativi Bette sta per rinunciare e tornare a New York, ma viene scelta per il film The Man Who Played God dalla Warner Bros, che la mette sotto contratto per 5 anni (dicendo: “nonostante tu sia affascinante quanto Stanlio e Ollio, ti prendo per il tuo talento”). In 2 anni recita in oltre 20 film (gli Studios erano una macchina molto diversa da quella odierna) e guadagna bene. Quando nel 1932 sposa Harmon Oscar Nelson, la stampa si concentra sulla loro forte differenza salariale e lui non vive bene la cosa, al punto da impedirle di comprare casa finché non potrà farlo da solo per entrambi.
La svolta arriva finalmente nel 1934, con il dramma Schiavo d’amore. Una svolta dettata dal coraggio, perché mentre le altre attrici sono spinte dallo star system ad accettare solo ruoli “amabili”, Bette sceglie il meno amabile di tutti: quello di Mildred Rogers, una volgare e crudele cameriera che si prende gioco del protagonista del film. È un vero e proprio trionfo. I critici parlano della “migliore interpretazione mai vista da un’attrice americana” e quando l’Academy non la nomina come migliore attrice i giornalisti e alcuni colleghi (tra cui una nominata nella stessa categoria, Norma Shearer) fanno un tale macello, con tanto di petizione, da costringerli a includerla in un secondo momento. L’anno successivo le regole del premio verranno modificate perché non accada più uno “scandalo” del genere.
Nella mia professione, finché non pensano che tu sia un mostro, non sei una star. Ma non ho mai lottato in modo infido. Non ho mai lottato per niente all’infuori del bene del film.
Convinta che i ruoli controversi siano indispensabili per mettersi alla prova, Bette Davis continuerà per tutta la sua carriera a prediligere il realismo rispetto all’immagine patinata Hollywoodiana. Non solo rifiuta più volte di farsi “abbellire”, ma addirittura insiste per essere “imbruttita” dov’è necessario. In Il conte di Essex (1939), per esempio, nel quale interpreta la Regina Elizabeth, insiste per farsi rasare completamente il cranio come lei, ma dopo le pressioni di make up artist accetta a denti stretti di rasare solo metà testa e sopracciglia. Oppure in Il grano è verde (1945) si impone per interpretare l’insegnante Miss Moffat così com’è stata scritta, di mezza età e con una parrucca bianca, anziché nella versione più giovane e sensuale proposta dagli Studios. Per lei un’attrice deve essere a servizio del film, e di nient’altro.
Ne è così convinta che nel 1936 fa l’impensabile: intenta una causa legale contro Warner Bros, che la costringe a una sequela di ruoli mediocri. In questi anni infatti vige ancora il sistema per cui gli Studios “possiedono” gli attori sotto contratto, e possono letteralmente usarli come preferiscono. I giornali le remano contro, dipingendola come una donna avida e viziata, e di fatto Bette perde la battaglia, ma vince la guerra; gli Studios cominceranno ad affidarle ruoli più coraggiosi, avviando la parte d’oro della sua carriera. Per la cronaca, a seguire il suo esempio e a dare il via allo smantellamento definitivo dello Studios System sarà pochi anni più tardi un’altra donna, Olivia de Havilland.
Nel 1935 vince l’Oscar come migliore attrice per Paura d’Amare, nel 1937 la Coppa Volpi per Le 5 schiave, nel 1938 il secondo Oscar per Jezebel. Dato il suo ruolo in quest’ultimo titolo, cioè quello della bellezza del Sud, sfiora la possibilità di interpretare Rossella O’Hara in Via col Vento, ma il ruolo va a Vivien Leigh.
Il successo di Bette però frustra parecchio il marito, che nel 1938 riesce a provare i suoi tradimenti col produttore Howard Hughes e chiede il divorzio. Lei, distrutta, pensa di mollare le riprese di Tramonto, ma alla fine tiene duro e riesce a incalanare la sua sofferenza in una delle migliori performance della sua carriera.
Oltre al suo sguardo di intensità senza pari, un altro dettaglio caratteristico della mitologia di Bette Davis sono le sue sigarette, che fuma costantemente, persino sulla poltrona del dentista. Fumare per lei è un segno distintivo, tanto da dire in un’intervista tv: “Se non fumassi nessuno mi riconoscerebbe”.
Nel 1941 diventa la prima donna presidente dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, ma poco dopo lascia l’incarico a causa dei dissapori con gli altri membri. Durante la Guerra è l’unica attrice bianca a esibirsi per un reggimento di persone di colore e fonda le Hollywood Canteen, dei nightclub gratuiti per i soldati e tutte le altre persone impegnate al fronte – comprese le donne – che lì possono rifocillarsi e risollevarsi lo spirito incontrando alcune celebrità. Nel 1943 il suo secondo marito muore per un incidente e anche questa volta lei cerca di allontanarsi dal set del film che sta girando, Mr. Skeffington, ma il produttore la convince a restare. Lavorare con lei si rivela particolarmente difficile per la troupe, che in seguito parlerà con toni irati delle sue manie e dei suoi sbalzi d’umore.
Dal 1945 la sua carriera rallenta, anche perché con l’avanzare dell’età le vengono offerti ruoli sempre meno consistenti. A 37 anni gli Studios la reputano già finita, ma lei rifiuta categoricamente di arrendersi a scivolare nell’ombra. In questo periodo compaiono per Hollywood dei suoi volantini, che recitano:
Madre di tre figli – 10, 11 e 15 anni – divorziata. Americana. Trent’anni di esperienza come attrice cinematografica. Riesce ancora a muoversi ed è più affidabile di quanto dicano i pettegolezzi. Cerca impiego fisso a Hollywood. (Ha esperienza a Brodway.) Bette Davis, c/o Martin Baum, G.A.C. Fornisce referenze su richiesta.
Più fighe di così, si muore.
Bette inizia quindi a lavorare freelance e interpreta il ruolo di Margo Channing in un certo filmettino intitolato Eva contro Eva. È subito capolavoro, e i critici che già la giudicavano bollita si trovano davanti, con sorpresa, a una delle sue migliori interpretazioni. Ironicamente, vista la trama del film (un’attrice in declino cerca di minare la carriera di una nuova e giovane promessa), Bette stabilisce una duratura amicizia con la sua co-star Anne Baxter.
Dal 1950 segue un’altra decade di film mediocri, e tutto fa pensare che Eva contro Eva sia stato il suo canto del cigno. Invece Bette ha ancora una freccia al suo arco: nel 1962, a 54 anni, accetta un ruolo nella pellicola horror Che fine ha fatto Baby Jane?, al fianco della sua rivale storica Joan Crawford (parla di questo la serie Feud di Ryan Murphy). Ancora una volta, quando sembrava finita, Bette Davis sbaraglia tutti e si guadagna l’ennesima nomination agli Oscar.
Alla faccia di chi la credeva “troppo brutta” per cominciare, Bette recita letteralmente fino alla fine. Nel 1983 subisce due mastectomie per un tumore al seno e un ictus le paralizza un braccio e metà viso, ma riesce a riprendersi abbastanza da ricominciare a lavorare. Nel 1987, a 79 anni, incanta per l’ultima volta il pubblico interpretando un’anziana cieca in Le balene d’agosto. Nonostante l’età e le condizioni di salute, ricorda a memoria non solo le sue battute, ma anche quelle di tutti gli altri, come sempre. Il tumore ritorna e lei muore nel 1989, pochi giorni dopo aver ritirato un premio alla carriera. Fumava ancora 100 sigarette al giorno.
Bette Davis è considerata l’attrice più importante della sua generazione, un pilastro dell’epoca d’oro di Hollywood, una delle poche vere leggende del cinema. Non si è mai lasciata fermare, è sempre risorta dalle sue ceneri, ha portato sullo schermo personaggi femminili reali, anche sgradevoli, in un mondo che prediligeva le fanciulle innocue, idealizzate e bidimensionali. Sulla sua lapide di famiglia, dove il suo nome spicca in caratteri più grandi, si legge: “She did it the hard way”. L’ha fatto nel modo difficile, e l’ha fatto come nessuna.
Source: freedamedia.it