Presto o tardi a tutti è capitato di voler sapere chi ha portato il nostro nome, prima di noi: magari un personaggio storico oppure di finzione, ma che è rimasto impresso nella memoria collettiva e le cui gesta sono ancora custodite nel suono di una parola. Nel mio caso, oltre alla sventurata figlia di Tito Andronico raccontata nell’omonima tragedia shakespeariana, c’è una Lavinia letteraria molto più conosciuta: si tratta della sposa di Enea, che darà vita alla discendenza dei futuri fondatori di Roma. Insomma, mica male no? Peccato che, nel poema dell’Eneide, la figura che ho amato di più in assoluto non sia stata la principessa sposa di Enea, bensì la bella e volitiva regina cartaginese che si innamora dell’eroe, prima di vederlo salpare per seguire il suo destino in Italia; la regina astuta e indipendente che, alla morte del marito per mano del fratello, non si lascia sopraffare dal dolore e comincia una nuova avventura, fondando una città che arriverà a misurarsi con la potenza di Roma. Una regina che però, secondo la versione raccontata da Virgilio, cede alla passione per Enea che la porterà alla morte – facendoci esclamare più e più volte: ma perché?? Questa regina, le cui vicende sono state narrate da diversi scrittori dell’antichità – e rese immortali dall’Eneide – risponde al nome di Didone.
Nevio prima, Virgilio e Ovidio poi, seguiti a catena da numerosi scrittori, pittori e compositori hanno legato le vicende di Didone a quelle di Enea. Ma in realtà, altre versioni più antiche della sua storia ci restituiscono un ritratto ben diverso dalla versione romana.
“La gioconda”, Allizah – ovvero Elissa. Questo è il nome fenicio della regina conosciuta anche come Didone. Figlia del re di Tiro, Muttone, sposa lo zio Sicheo (noto anche con il nome di Sicherba o Acerbas), l’uomo più ricco del regno, diventandone la regina consorte. Ma il fratello Pigmalione non ha nessuna intenzione di mettersi da parte: è avido di potere e geloso delle sue ricchezze, e dunque uccide il marito della sorella, reclamando il trono. Lei, di tutta risposta, non si arrende alla cieca violenza di Pigmalione e con un abile trucco riesce a sottrargli delle navi per scappare in Africa, evitando una guerra civile.
Le navi giungono in Libia, dove Elissa di nuovo usa il suo ingegno per aggiudicarsi un luogo strategico su cui ha messo gli occhi: per ottenerlo, chiede al Re del posto, Iarba, di acquistare del terreno, quanto ne può essere contenuto all’interno della pelle di un bue. Il Re, pensando probabilmente di avere a che fare con una donna molto ingenua, acconsente di buon grado. E l’astuta regina fa tagliare in strisce sottili la pelle, creando un perimetro che include tutti i territori che voleva. E su quell’appezzamento, che non ha mai destato l’interesse di nessuno, lei fonda Cartagine (Birsa in greco, che significa, appunto, pelle di bue), una città che darà del filo da torcere ai regnanti delle altre potenze del tempo.
Inizia dunque una specie di gara per conquistarla: la regina è bella, intelligente e guarda caso, il luogo che ha scelto per fondare la sua città è situato in una posizione strategica nel Mediterraneo. Nel giro di poco comincia a ricevere una lunga serie di proposte di matrimonio dai principi dei paesi circostanti, capitanati da Iarba stesso, che minaccia di muoverle guerra in caso di rifiuto. Ma lei è intenzionata a rimanere fedele alla memoria dell’amato marito ed esercitare il suo potere da sola – tanto che, nella versione greca della sua leggenda, si dice che finse di accettare la proposta di Iarba per poi uccidersi con una spada. Fino all’ultimo – e con un gesto estremo – sarà lei a decidere per il suo destino, consegnandosi al suo popolo libera, senza mai essersi piegata alla volontà di nessuno. E proprio il suo popolo la divinizzerà con il nome di Tanit, la divinità corrispondente alla fenicia Astarte, alla Giunone romana).
Ma ecco che sulla figura di questa condottiera libera e fiera si inserisce il racconto di Virgilio (e le successive rielaborazioni) che ne cambia notevolmente il carattere: dalla donna abile e determinata si passa a un regina in preda alla passione. Secondo il suo racconto infatti, viene colpita da Cupido, e si innamora perdutamente del naufrago Enea – amore alimentato anche dai consigli della sorella Anna. Didone è generosa e premurosa: accoglie Enea e i suoi compagni e si commuove ai racconti dell’eroe. Riparandosi da un temporale durante una caccia, i due si lasciano andare alla passione: ed ecco che Enea si dimentica della missione e dei compagni e Didone dell’amato marito. Le voci sulla loro unione viaggiano in fretta: arrivano all’orecchio di Iarba che subito riferisce al padre Giove Ammone e lo supplica di “fermare il Paride effeminato” che sembra aver conquistato la regina – e i territori che gli interessano. Presto fatto: cambia la volontà degli dei e per Enea è tempo di proseguire il cammino verso il suo destino e lasciare Didone. Lui obbedisce. Lei si dispera. Prima lo supplica, poi lo maledice, ponendo le basi dell’inimicizia tra le due potenze – che porterà poi alle guerre puniche. E anche in questa versione, è lei a darsi la morte, con la spada che Enea stesso le aveva donato, gettandosi poi nel fuoco di una pira. Si incontreranno di nuovo nella discesa agli inferi di Enea, ma a quel punto Didone non lo degnerà neanche di uno sguardo, ricongiungendosi finalmente con il suo Sicheo.
La Didone di Virgilio rientra così nell’immaginario di quelle regine straniere che mettono in difficoltà gli eroi con la loro seduzione e poi impazziscono di amore e di dolore. Ma l’eroe dell’Eneide riesce a sottrarsi al potere seduttivo – e distruttivo – di questa regina, che viene rappresentata a tratti lucida, a tratti in preda a una furia passionale che la porta alla morte. Da casta regina, condottiera e cacciatrice (simile per certi aspetti alla figura di Diana) si trasforma in una donna irrazionale, in preda ai sentimenti, che lancia maledizioni e getta il seme della vendetta, vedendo il suo amato partire.
A commento di questa versione del mito, qualche tempo fa era uscito un articolo molto ironico e dal titolo esplicativo: “Perché le donne toste perdono la testa per gli Enea“.
Io devo ammetterlo, avevo amato Didone già nell’Eneide. Ma accanto a questa versione della sua storia, non dobbiamo dimenticare quello che questa regina è stata, prima che Virgilio, Ovidio, e gli altri artisti che l’hanno celebrata, ne raccontassero unicamente l’aspetto sentimentale e legato alla leggenda di Roma.
Il racconto delle fonti più antiche mi ha permesso di rispolverare la sua figura dall’immagine della donna abbandonata per riportare alla luce il suo animo intraprendente, determinato e coraggioso, che ci ricorda della sua astuzia e del suo fiero orgoglio; dell’esigenza di voler governare da sola senza dover per forza risposare qualcuno (che ricorda la castità strategica di un’altra grande regina); la volontà di evitare la guerra civile e partirsene per un paese dove ricominciare da capo, sapendo di poter contare più sul proprio cervello che sulle proprie ricchezze. La nostra Didone, con cui abbiamo probabilmente empatizzato nella sua fragilità, quando impreca contro un uomo che vede schiavo del proprio destino – lei, che il destino se l’è costruito sola e l’ha forgiato come meglio poteva – cela un lato forse poco conosciuto e meno enfatizzato, ma che in realtà è ben presente sotto tutti i racconti dei suoi turbamenti d’amore. Ed è quello che le ha permesso di essere una donna fondatrice di una città, una grande potenza antica, che secondo il mito, dovrà essere sconfitta, per permettere la nascita di Roma.
Source: freedamedia.it