Immaginiamo che da un momento all’altro tutto il mondo smettesse di mangiare carne, pesce, uova, miele e gli altri prodotti di derivazione animale, che cosa succederebbe?
Farebbe bene all’ambiente e in alcuni casi anche alla salute, ma malissimo all’economia, soprattutto quella dei Paesi più poveri.
I vegani in Italia sono triplicati nell’ultimo anno. Nel 2016 – secondo il rapporto Eurispes 2017 -erano poco meno dell’1% e nel 2017 già si parla di 3%. Il 7,6% del campione intervistato segue una dieta vegetariana o vegana. In totale si tratta di un milione e ottocentomila persone. Il dato è più o meno confermato anche dal rapporto Vegan Italia 2017, realizzato dall’osservatorio Veganok (non esattamente super partes, quindi), secondo cui gli italiani che hanno scelto un’alimentazione 100% vegetale sono il 2,6%.
Il 59% sono donne e il 41% uomini. I numeri sono confermati anche dalla crescita delle vendite nel settore “no meat”. Nei primi 10 mesi del 2016, rispetto allo stesso periodo del 2015, c’è stato un calo dei consumi del 5,8% per le carni rosse e suine, del 5,3% per i salumi e del 3,2% sui prodotti caseari. A questi cali corrispondo aumenti di prodotti vegani: latte vegetale (+19%), zuppe (+37%), piatti pronti, condimenti, salse e sostituti dei secondi piatti (+27,1%).
Un trend in crescita non solo in Italia. Nell’ultimo decennio il numero di persone nel Regno Unito che segue una dieta vegana è aumentato del 340%, soprattutto nella fascia di età che va dai 16 ai 24 anni.
Un quarto delle emissioni dei gas serra deriva dal cibo, si legge sulla Bbc. Solo gli allevamenti, secondo una stima dell’Onu, producono il 14,5% di tutte le emissioni mondiali di gas nocivi per l’ambiente. Quindi se tutto il mondo, da questo momento, diventasse vegano, le emissioni alimentari sarebbero ridotte del 70% entro il 2050, in base a una recente relazione sul cibo e sul clima pubblicata sulla rivista Proceedings of National Academy of Sciences (PNAS) e realizzata dai ricercatori dell’università di Oxford.
Essere vegani non significa mangiare bene. La dieta vegana di solito è povera di calcio, vitamina D, ferro, vitamina B12, zinco e acidi grassi omega-3. Molti prodotti contengono olio di cocco, ricco di grassi saturi. C’è anche per i vegani il rischio di cedere al cibo spazzatura e di seguire una dieta dove molte sostanze nutritive importanti potrebbero mancare. Quindi anche chi fa questa scelta alimentare deve fare attenzione a cosa mangia.
Una vota però raggiunto un buon equilibrio alimentare, la dieta vegana potrebbe procurare benefici per la salute. Il regime alimentare occidentale è spesso legato a malattie cardiache, diabete e obesità. Nel 2015 l’Organizzazione mondiale della sanità ha spiegato che una dieta povera di carne potrebbe ridurre i casi di malattie coronariche, infarti, diabete e la comparsa di alcuni tipi di tumore.
La dieta vegana potrebbe salvare la vita ogni anno a 8,1 milioni di persone. Circa la metà dei decessi – si legge in una ricerca fatta dall’Università di Oxford – potrebbero essere evitati con la riduzione del consumo di carne rossa, mentre l’altra metà da una giusta combinazione tra frutta e verdura e una riduzione delle calorie. “Quello che mangiamo influenza la nostra salute”, dice il dottor Marco Springmann che ha condotto lo studio ‘Oxford Martin sul futuro degli alimenti‘. “Le diete sbilanciate, come quelle a basso contenuto di frutta e verdura o con prevalenza di carne rossa e lavorata, sono responsabili di molte malattie che a volte possono portare anche alla morte”.
Sono 10mila anni che l’uomo alleva e mangia gli animali. La nostra dieta non incide solo sugli equilibri ambientali, ma da essa dipendono l’occupazione di milioni di persone, la ricchezza economica e le tradizioni religiose e culturali di alcuni Paesi, si legge in un articolo della Bbc Future. Secondo un rapporto dell’Onu, la produzione di carne ammonta all’1,4% del Pil mondiale. Se la si interrompesse, circa 1,3 miliardi di persone, di cui 987 milioni con reddito di fascia bassa, finirebbe sul lastrico.
La zootecnica rappresenta il 40 per cento della produzione agricola globale. “È davvero la storia di due mondi”, racconta Andrew Jarvis del Centro internazionale della Colombia per l’Agricoltura Tropicale. “Nei Paesi sviluppati il vegetarianismo porterebbe benefici ambientali e sanitari. Ma nei Paesi in via di sviluppo ci sarebbero effetti negativi in termini di povertà”. Bisogna tenere presente che un terzo della superficie mondiale è fatta di terre aride o semi aride, adatte solo al pascolo e non all’agricoltura. Ben Phalan, un ricercatore dell’università di Cambridge, ha detto: “Senza l’allevamento la vita in certi territori diventerebbe quasi impossibile”. Inoltre procurare ortaggi e prodotti vegetali non di stagione e trasportarli da una parte all’altra del mondo, oltre ad essere un costo non indifferente, non tarderebbe a mostrare pesanti conseguenze anche in termini di inquinamento.
“Sulla terra ci sono oltre 3,5 miliardi di ruminanti domestici e decine di miliardi di polli prodotti e uccisi ogni anno per il cibo”, dice ancora Ben Phalan. “Parliamo di un’enorme impatto economico se venissero eliminati tutti insieme”. In passato alcuni abitanti del Sahel – un’area dell’Africa piuttosto estesa, a sud del Sahara e nord dell’equatore – provarono a passare dall’allevamento all’agricoltura, ma non ci riuscirono. Un altro problema riguarderebbe le popolazioni nomadi, come i berberi o molti mongoli. Come farebbero? Passare a una vita sedentaria comporterebbe la perdita della loro identità. La carne è una parte importante della storia, della tradizione e dell’identità culturale. Numerosi gruppi in tutto il mondo usano il bestiame come dono ai matrimoni o per cene celebrative. “L’impatto culturale se si dovesse rinunciare completamente alla carne sarebbe forte”, conclude Phalan.
Se tutti diventassero vegani si risparmierebbero terra e acqua. Secondo la ricerca pubblicata dal ‘The American Journal of Clinical Nutrition’, dei circa 5 miliardi di ettari di terreni agricoli nel mondo, il 68% viene utilizzato per allevare il bestiame. Oggi la popolazione mondiale è di circa 7 miliardi di persone e l’Onu prevede che nel 2050 arriveremo a 10,5. Walt Willett, professore di medicina all’Università di Harvard, ha spiegato che la fame nel mondo potrebbe essere eliminata con circa 40 milioni di tonnellate di cibo. Ogni anno gli animali delle aziende agricole ne consumano circa 760 milioni. C’è però da notare due cose: non tutte le terre dedicate al pascolo sarebbero adattabili alle colture e la fame nel mondo non esiste a causa della scarsa produzione di cibo che non arriva a chi ha bisogno. Quindi non sono le scelte alimentari che risolveranno la fame nel mondo, mancano politiche internazionali rivolete a risolvere il problema.
Se migliaia di animali non venissero più usati per sfamare gli esseri umani che fine farebbero? Verrebbero uccisi, abbandonati o ritornerebbero a vivere in modo selvaggio? Non tutti potrebbero ritornare ad essere liberi, perché probabilmente non sopravviverebbero. Ad esempio i polli, sono così lontani, si legge ancora sulla Bbc, dai loro antenati che in natura da soli non riuscirebbero più ad adattarsi. Discorso diverso per i suini e le pecore che potrebbero ritornare nei boschi e nei pascoli e ritrovare il loro equilibrio naturale, ma anche per loro non sarebbe facile. La presenza dell’uomo ha distrutto molti dei loro habitat naturali.
Source: www.agi.it
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