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A che cosa stai pensando in questo momento?

Mentre studi o sei in ufficio, pensi che devi fare sport. Mentre fai sport, pensi al tuo fidanzato. Mentre sei con il tuo fidanzato, pensi agli esami o al tuo capo. E così la tua vita scorre, giorno dopo giorno, mentre tu stai pensando a qualcos’altro. Questa cosa non ti manda in bestia?

Attenzione, sto parlando di qualcosa di molto diverso dal concetto americano di blurring, quello per cui i confini tra famiglia e lavoro, vita privata e vita professionale sfumano sempre di più uno nell’altro. Sto parlando di vivere davvero il momento presente, un compito che sembra impossibile per la nostra mente, continuamente impegnata a vagare altrove. Dove? Nel passato, nel futuro, nella fantasia. Sempre altrove.

Per rendersene conto, basta sperimentare qualche basilare tecnica di concentrazione: rivolgere e mantenere ferma l’attenzione su un oggetto non è affatto semplice. La maggior parte delle persone non riesce a stare davvero concentrata nemmeno per pochi secondi, che subito la mente scivola via: che cosa preparo per cena, come gestisco la riunione di lunedì, devo svuotare la lavatrice.

Qualche tempo fa, durante una lezione di yoga, la mia insegnante ha citato l’interessante caso di Track Your Happiness, un progetto di ricerca con l’ambizione di rispondere in maniera scientifica alla domanda che cosa ci rende felici attraverso un’applicazione che ti contatta durante svariati e imprevedibili momenti della giornata e ti chiede di rispondere a un semplice questionario.

La ricerca ha documentato che il 46.9% delle persone trascorre il tempo pensando a qualcosa di diverso da quello che sta facendo in quel momento. Matthew Killingsworth e Daniel Gilber, analizzando i risultati, hanno poi messo in luce come, per dichiararci felici, il tipo di attività che stiamo facendo conta meno (circa il 5%) del livello di concentrazione che dedichiamo a quell’attività (10%). Insomma, è più probabile stare bene mentre si lavora, se si è concentrati sul lavoro, piuttosto che mentre si fa sesso, se lo si fa pensando ad altro.

Perché? Da dove si origina questa irrequietezza?

Oriente e Occidente

Mentre il pensiero filosofico occidentale si è sviluppato attorno al valore della conoscenza fine a se stessa, la saggezza delle tradizioni contemplative orientali è di tipo più pratico e si rivolge direttamente a questo vissuto di irrequietezza della mente ordinaria, descritta con diverse metafore: mente scimmia, mente elefante selvaggio, mente fiume furioso, mente cucciolo scatenato. La prima grande lezione che insegna la tradizione sramanica, dopo la presa d’atto dell’impetuoso scorrere del fiume di pensieri, è quasi disturbante nella sua semplicità: noi non siamo i nostri pensieri.

Le tradizioni contemplative affermano (…) che la nostra autentica identità non si nasconde nei contenuti mutevoli della nostra coscienza, ma in uno strato più profondo (…) della mente. Per raggiungere questo strato più profondo, ci si deve liberare dall’identificazione automatica con i contenuti della coscienza. (Mircea Eliade, Enciclopedia delle religioni, vol. 3)

La pratica della meditazione lavora su questa dis-identificazione. Nel linguaggio comune, si dice “essere zen”. Ma che cos’è lo zen?

Il grande maestro zen Matsu Daoyi (709–788), della dinastia cinese Tang, alla domanda di un discepolo che gli chiede Che cos’è lo zen? risponde:

«Dormire quando si è stanchi, mangiare quando si ha fame.»

Questo è un mondō, ossia una forma di dialogo tra un allievo e un maestro caratteristica della tradizione Zen, un dialogo che, se letto da un occidentale, appare composto da chiare domande dell’allievo e incomprensibili risposte del maestro.

Daisetsu Teitarō Suzuki, massima autorità giapponese nel campo del buddismo zen e grande divulgatore, in Lo Zen e la Cultura Giapponese ci svela come si tratti invece di un dialogo composto da incomprensibili domande di un allievo e chiare risposte del maestro.
Eccone un altro esempio:

“Che cos’è lo Zen?” “Non capisco” rispose un maestro. “Che cos’è lo Zen?” “Il ventaglio di seta basta a farmi aria” rispose un altro maestro. “Che cos’è lo Zen?” “Lo Zen” rispose un terzo maestro.

Il maestro zen è consapevole che le parole tendono inevitabilmente a sganciarsi dalla realtà e a trasformarsi in concetti, mentre insiste sulla necessità di concentrarsi sulle cose. Il maestro zen non si lascia coinvolgere in discussioni su temi astratti, il maestro zen agisce. La parola non si deve separare dall’oggetto, dal fatto o dall’esperienza, mai: altrimenti si svuota.

«Non appena noi consideriamo, riflettiamo e formiamo concetti, l’inconsapevolezza originaria va perduta e sorge un pensiero. Non mangiamo più quando mangiamo, non dormiamo più quando dormiamo.» (Daisetsu Teitarō Suzuki)

Il maestro Matsu ci insegna che lo zen è la coscienza quotidiana, l’essere costantemente presenti a se stessi e al mondo. Questa coscienza quotidiana delle cose che non astrae, ma resta immersa nell’esperienza presente è anche detta satori.
Lavora, quando sei in ufficio. Divertiti, quando fai sport. Ama, quando stai con il tuo amore. Sii davvero presente a te stesso in quello che fai.

Già, ma come?

Allenare la coscienza, attraverso il corpo

Ci sono delle attività che, più di altre, se praticate con costanza, aiutano a raggiungere lo stato di satori. Tra queste, il tiro con l’arco. Che cos’hanno di speciale queste attività?

Così il tiro con l’arco non viene esercitato soltanto per colpire il bersaglio, la spada non s’impugna per abbattere l’avversario, il danzatore non danza soltanto per eseguire certi movimenti ritmici del corpo, ma anzitutto perché la coscienza si accordi armoniosamente all’inconscio. Per essere veramente maestro nel tiro con l’arco la conoscenza tecnica non basta. La tecnica va superata, così che l’appreso diventi un’arte inappresa, che sorge dall’inconscio. Nel caso del tiro con l’arco questo significa che il tiratore e il bersaglio non sono più due cose contrapposte, ma una sola realtà. L’arciere non è più consapevole d’essere uno che ha da colpire il bersaglio davanti a lui. Ma questa condizione di inconsapevolezza egli la raggiunge solo se è perfettamente libero e distaccato da sé, se è tutt’uno con la perfezione della sua abilità tecnica.

Tra queste attività, c’è anche lo yoga. Il fine dello yoga, posto che ne abbia uno diverso dalla stessa pratica, è quello di entrare in contatto con il nostro Sé più profondo. Il mezzo per raggiungere questo fine è un viaggio con e attraverso il proprio corpo. È anche per questo che un libro di anatomia può essere un’autentica guida spirituale allo yoga.

Scrivo in corsivo spirituale perché, secondo la tradizioni degli Yoga Sutra di Patanjali, l’unico vero maestro di yoga è il respiro (“respiro” è uno dei primi significati della parola “spirito”, in latino spiritus). Il respiro è un’azione che possiede contemporaneamente la caratteristica di essere un automatismo dell’organismo e un atto volontario dell’individuo.

Leslie Kaminoff, autore di Yoga Anatomy, ha individuato nella relazione che esiste tra respiro e colonna vertebrale il tratto che rende lo yoga un principio integrato per lo studio dell’anatomia. La sua definizione di yoga verte sull’integrazione tra mente, respiro e corpo: una disciplina che ci permette di pensare in modo più chiaro, respirare senza sforzo e muoverci con più efficenza. Lo Yoga è un insieme di pratiche che ci invita a cercare il nostro personale percorso di saggezza attraverso il corpo.
Il corpo è una risposta che l’Occidente non ha mai dato all’imperativo socratico del “conosci te stesso”, almeno fino a Nietzsche. La saggezza orientale, invece, passa proprio attraverso il corpo e lo yoga è una delle sue filosofie. La felicità è di questo mondo, dobbiamo solo rimuovere alcuni ostacoli che impediscono al nostro corpo di trovare il proprio equilibrio. Per farlo, non bisogna fare programmi: bisogna fare pratica.

Source: freedamedia.it

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